Non sono passati molti mesi da quando Marion Cotillard – giovane e straordinaria attrice francese – si aggiudicava il premio Oscar per la sua interpretazione di Edith Piaf nel film La Môme: spettatori, critici, e giurati si erano lasciati conquistare rivedendo sullo schermo la diva così come se la ricordavano e come lavevano immortalata migliaia di immagini. Adesso Pamela Villoresi, in teatro, tenta, con successo, unimpresa simile: con il drammaturgo Giuseppe Manfridi e il regista Maurizio Panici racconta gli ultimi ventanni di vita artistica di Marlene Dietrich, che vanno dal 1954 al 1975, prima che una lunga malattia non costringesse lattrice e cantante a lasciare la scena. Marlene, che ha debuttato in prima nazionale al Manzoni di Pistoia (è una produzione dellAssociazione Teatrale Pistoiese), presenta, attraverso tre momenti che precedono altrettanti concerti, il personaggio della Dietrich nella sua disastrosa intimità personale e nella sua straordinaria grandezza artistica.
I tre capitoli si svolgono in camere dalbergo o in camerini, cogliendo Marlene mentre si prepara ad entrare in scena a Londra nel 1954, a Berlino nel 1960, e a Toronto nel 1975. Il testo sottolinea anche la figura del “Mefistofele”, il regista Josef Von Sternberg, lintramontabile creatore de LAngelo azzurro, che tanto contribuì alla gloria della Dietrich ma che fomentò non poco la sua mostruosa sete di perfezione. Fu lui che convinse Marlene a farsi togliere quattro molari per accentuare i suoi zigomi. Manfridi sceglie di aprire e chiudere lo spettacolo con Von Sternberg (interpretato senza troppa convinzione da Orso Maria Guerrini), anche a costo di farlo apparire redivivo sei anni dopo la sua morte, attraverso limmaginazione della protagonista. Evidenzia così (in maniera a nostro avviso troppo esplicita) il ruolo mefistofelico del noto regista (andando forse anche al di là della realtà storica).
Nella parte centrale dello spettacolo, unintelligente scrittura e una straordinaria interpretazione riescono a fare emergere tutta la complessità di Marlene. Il testo, che in certi punti risulta eccessivamente didascalico – pretestuose alcune parti “esplicative”, in cui si mettono in scena improbabili dialoghi pur di presentare informazioni biografiche sulla Dietrich – ha il merito di ricostruire al contempo la vita privata e artistica della diva. Dalla sua camera dalbergo o dal suo camerino si conoscono le sue problematiche relazioni personali, ma anche le sue canzoni e i suoi bellissimi costumi (ottimo il lavoro di Lucia Mariani).
Ma certo tutto si regge sulla nuova diva, che per interpretare la Dietrich è dimagrita quattordici chili e ha abbassato la sua gamma vocalica di due toni. Palestra quotidiana e costanti esercizi le hanno permesso di identificarsi con Marlene. E il risultato, sinceramente, è incredibile. Pamela Villoresi è totalmente calata nel suo personaggio, recita con estrema naturalezza, sembra non trovare alcuna difficoltà. Aiutata da costumi, trucchi e parrucche, incarna con verosimiglianza la diva così come doveva essere nei concerti di Londra, Berlino e Toronto. E non perde forza nemmeno quando si confronta con una Marlene ventanni più anziana rispetto alla prima scena: pare assolutamente a suo agio anche con voce e movimenti invecchiati.
Accanto a lei David Sebasti incarna un Burt Bacharch impetuoso ma dolce con la sua amante; disinvolto nella recitazione e bravo anche nel canto. Più debole la figure di Tami, la donna che ebbe a lungo una relazione con la Dietrich e che poi morì in manicomio, interpretata da Cristina Sebastianelli. La figlia Kater, la principale vittima della vita disordinata di Marlene, autrice della biografia che ne denunciò le sregolatezze, è affidata senza stonature a Sivlia Budri.
|
|