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Uno scambio allarmante
di Manlio Santanelli


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  Heinrich Füssli, L'incubo
Data di pubblicazione su web 01/10/2008  

Non aveva mai dato eccessiva importanza ai sogni, anzi, per l'esattezza, non gliene aveva data affatto. Nel risvegliarsi la mattina avvertiva, sì, che la sua mente era stata attraversata da brandelli di immagini, volti più o meno noti, peregrini ricordi del passato, non esclusa qualche  ricorrente scheggia dell'esame di maturità; ma erano simili a quelle nuvole che si sfrangiano nel transitare davanti al sole, per poi scomparire del tutto all'orizzonte, lasciando il cielo terso delle belle giornate estive. Non potevano definirsi incubi, nessun medico gli avrebbe detto in proposito: «Signor Orazio, lei purtroppo è un cattivo sognatore».

Di conseguenza, non aveva mai considerato una menomazione il presentarsi davanti allo specchio per radersi la barba ormai sgombero da 'residui notturni'; al contrario, si sentiva un privilegiato nei confronti di coloro – e ce ne sono tanti, più di quanto si possa immaginare, basta limitarsi a contarli – che al risveglio si ritrovano nella condizione di chi è appena uscito da una sala cinematografica dopo aver assistito ad un indefinibile numero di film e, saldamente convinti della originalità di quanto hanno sognato, nelle  più disparate occasioni ti sottopongono alla tortura di ascoltarne un dettagliato resoconto. Nelle più disparate, ripetiamo, come ad esempio mentre stai per montare sull'autobus laddove il sognatore di turno aspetta un'altra linea, o viceversa. «Chissà che avrà mai sognato?» era una domanda che, nel caso di un 'somnium interruptus', non aveva mai sedotto, neanche un solo istante, la sua attenzione, troppo cospicuo era il sollievo di essere sfuggito a quel tormentone.

Ma quando una mattina, nello stiracchiarsi dopo un sonno rigeneratore, registrò un senso di fastidio, un disturbo paragonabile a quello che ci produce una spina di cardo non in programma, ecco che il fenomeno (mai sufficientemente spiegato) dell'attività onirica si impose alla sua volontà ordinandogli di sedersi e cercare di ricordare per filo e per segno ciò che aveva sognato, pena il probabile rischio di portarsi dietro quella spina nella carne, fino a quando non era dato sapere con certezza.

Fu allora che Orazio, incurante del ritardo che detta operazione avrebbe comportato a carico dei suoi doveri di ufficio, si mise comodo sulla sua 'bergere', chiese un altro caffè alla moglie Curiazia - deroga alla consuetudine che la donna non seppe o, forse, non volle spiegarsi -, e si concentrò su quanto gli era rimasto impresso nel cervello dall'ultimo pensiero sulla soglia del piacevole slittamento nel sonno al primo giro di manovella della macchina mentale nel riaprire gli occhi alla luce del giorno.

Sotto la pressante volontà 'oraziana' di trovare il capo di quella matassa di luoghi e persone e voci, le iniziali pendolarità della memoria si andarono via via riducendo fino ad una soddisfacente fissità; e l'uomo, ancorché provato da quel genere di sforzi ai quali non era allenato, poté comunque fregiarsi del meritato alloro nell'agone contro l'oblio allorché magicamente i segmenti della sua attività onirica si misero in bell'ordine, proponendosi inseriti nell'inconfondibile scenario di una Prima Comunione. La ginnastica mnemonica, che non a caso nell'antichità si era meritata autorevoli trattati, è un sistema di esercizi prodigiosi, che si gemellano in natura con la capacità di cui sanno dar prova, dopo la rottura di un termometro, i microscopici asteroidi di mercurio nel ricompattarsi in un unico satellite; o, se si vuole, con quella dei fluidi che in un batter d'occhio cristallizzano.

Ma Orazio non fece a tempo a godersi quel riconquistato prodotto del suo sonno, che una 'variante pazza' intervenne a rovinargli la festa. L'atmosfera di quella cerimonia, vissuta con tanta apprensione da ogni adolescente al primo appuntamento con l'Altissimo, era in perfetta armonia con quanto di gioviale e di conviviale ci si doveva attendere, ma... ma il piccolo Orazio non si presentava, come era naturale che fosse, nella pelle di un bambino tirato a lucido per la solenne circostanza, bensì in quella di una bambina dalle bionde trecce, dalle rosee guanciotte e dal candido abitino tutto 'plissées'.

Non è 'politicamente corretto', come oggi si abusa nel dire, esprimere un giudizio negativo su quanti, scopertisi attratti dal sesso a cui appartengono sin dalla nascita − appartenenza autorevolmente confortata da documenti come la patente e la carta d'identità −, oscillano tra quell'inclinazione (spesso a loro avviso inconfessabile) e una forzata volontà di apparire in pace con la propria eteronatura. Né tampoco il livello culturale che, Dio sa con quanta fatica, abbiamo raggiunto ci consente di portarci dietro pregiudizi e smorfie di ludibrio in materia di scelte sulla identità sessuale di chicchessia. Dunque da parte nostra nessuna perplessità sia sull'una che sull'altra riflessione. E, tuttavia, non ci possiamo sottrarre all'obbligo di riferire gli effetti perturbanti che quel sogno ebbe sull'umore di Orazio.

Felicemente sposato a Curiazia da circa tre decenni, padre di tre figli certamente suoi, reo non confesso di un limitato numero di avventure vissute in alberghi a ora, in compagnia di un altrettanto limitato numero di colleghe di ufficio, non si era mai sorpreso a riflettere su quella percentuale, più o meno pronunciata, di femminilità che alloggia (e non sempre pacificamente) in ogni essere di genere maschile. Certo è che a tal proposito poteva 'muzioscevolare' di non avere,  da infante,  mai giocato con le bambole né indossato gli abiti della madre.

Eppure, non così facilmente è data in sorte ai sogni la facoltà di appannare con il loro fiato ancora caldo di letto il vetro di una coscienza sveglia, come di contro avvenne in quella circostanza. Per quanto Orazio si imponesse di non cadere nella tagliola dell'autocoscienza similfreudiana, l'immagine di quella mocciosetta gli restava fastidiosamente dentro, al pari di un cibo in sosta nello stomaco più di quanto gli sia consentito da una normale digestione. 

L'esistenza, entità che non procede mai senza una nutrita scorta di rimorsi, fallimenti, possibilità che il tempo ha reso parzialmente o del tutto impossibili, ti lascia comunque la speranza di potere un giorno rimediare, rifarti quell'immagine che ha perso la sua trasparenza, restaurare  i  guasti subiti grazie (o meglio 'disgrazie') ad una momentanea debolezza del tuo Io. Chi di noi, ripensando ad un diverbio, o magari ad un oltraggio che ha incassato senza ripagarlo con egual moneta, non trova la migliore risposta quando è troppo tardi? 'Potevo dirgli questo e quest'altro', pensiamo dileggiando la nostra scarsa o punta tempestività. Ma anche in tali casi ci rimane la speranza, ridotta ad un filo magari, ma non da escludere, di ritrovarci in quella identica circostanza e riappropriarci di quanto è stato sottratto alla nostra dignità, con  gli interessi per giunta.

Ma il particolare di un sogno, che si è andato a rintanare dove è bene rassegnarsi all'idea di non poterlo mai più stanare, è tutt'altra cosa. Dovremmo rifare lo stesso sogno, cancellarne la parte che ci risulta molesta e proseguire lungo un percorso quantomeno accettabile. E non c'è chi non ritenga meramente illusorio un simile caso.

Che fare, allora? Dotato di un apprezzabile senso dell'umorismo, Orazio d'istinto si ritrovò  a ricorrere a quello, ben consapevole del suo potere di esorcizzare tutto quanto temiamo,  persino la morte. Da madrenatura iscritto nel nutrito elenco di coloro che, raggiunta una certa età, per quanta attenzione dedichino alla conservazione della 'linea', prima o poi si ritrovano con degli indesiderati rotolini di ciccia, e dove?, giusto nei punti in cui sono più evidenti, come il giro della vita o il sottomento, Orazio non era sfuggito a tale destino; ma quella prosperosa immagine di sé calata nelle fattezze di una fanciulla in fiore gli risultò talmente buffa, da strappargli una vigorosa risata a tutta mascella. Con il provvido effetto di restituirgli l'umore di sempre.

Ma dalla sua buona stella era scritto che quell'umore non durasse più di qualche giorno. Del resto, a che titolo imputargli una carenza di facoltà 'previsionarie' capaci di metterlo sul chivalà? Quando accade di dar di capo contro qualcosa di duro è naturale augurarsi che si tratti di un caso eccezionale, di un'irripetibile quanto misteriosa congiura di elementi negativi; ed allora, in una visione antropomorfica della Sorte, si può giungere persino ad immaginarla pentita di averci contrariato. È un errore, giustificato da quel briciolo di ottimismo che ha sede anche nel più pessimista di noi, ma è pur sempre un errore. Una volta riportato un certo successo nel colpire un esemplare del genere umano, la Sorte non vede l'ora di rinnovare quel successo.

E così , qualche tempo dopo ma non tanto, Orazio si ritrovò a fare i conti con i suoi sogni, che nel frattempo lo avevano adottato come una figlia e vegliavano sulla sua crescita.

Accadde, così, che nel sonno fu visitato da uno spiacevole incidente onirico: era sotto la doccia, non senza un certo compiacimento per la sua nudità che cominciava a presentare  quei dettagli ai quali si attribuisce il passaggio della donna dall'adolescenza alla prima maturità, quando l'acqua, scorrendo lungo il suo corpo, si cominciò a tingere di rosso all'altezza dell'inguine. All'istante il sogno si convertì in un incubo: stava morendo dissanguata, e  la prima reazione suggeritale dal buon senso fu quella di urlare: «Mamma, mamma!»  Toccò a Corinzia svegliarsi di soprassalto e, con la tenerezza di chi dorme accanto alla persona amata, fargli riaprire gli occhi e accarezzargli la fronte come per spazzar via tutto quanto di indesiderato gli si era accumulato dentro. «È passato, è passato» fu la sua fonetica terapia d'urgenza.

E tuttavia l'umano vivere, con il suo ciclo continuo di eventi, con la sua quotidiana 'chiamata alle armi', con il suo sempiterno omaggio al principio di necessità, non autorizza l'individuo trafitto nel profondo a concedersi il lusso di leccarsi le ferite in tutta tranquillità. È una sorta di catena di montaggio: se perdi colpi resti fatalmente indietro, fino ad essere espulso dall'officina  sociale. O, forse, la catena di montaggio è una grande metafora della vita; è sotto i nostri occhi, e se non la riconosciamo è per la ragione che è troppo sotto i nostri occhi.

Questo mediocre sofisma va preso con le pinze. Ancorché velato dalla sua bardatura di verità che aspira all'assoluto, nasconde invano lo sforzo di chi scrive per riagganciare Orazio. Il quale aveva l'obbligo di portare avanti la casa, e dunque bando alle ubbie, vestiamoci, corriamo in ufficio e pensiamo al nostro lavoro, prima che lui pensi a noi con gli esiti spiacevoli che si possono immaginare.

Ma quando, qualche notte dopo, si ritrovò stretto dai tentacoli di un sogno, che altro non erano se non le braccia avide e incontrollabili del suo innamorato, deciso di ottenere da 'luilei' quella che un tempo veniva indicata come la prova d'amore, laddove luilei rabbrividiva all'idea di non potersi sposare in abito bianco, ebbene Orazio riuscì nella titanica impresa di strappare al sonno quella parte di sé che ancora era lì a difendere la sua verginità, e a riportarla nel perimetro di una personalità unica e ben cosciente di appartenere al genere maschile. Ma lo sforzo era stato tale, da lasciarlo interamente svuotato di energie; al punto che  per riprendersi del tutto, in punta di piedi onde non svegliare la consorte, ebbe bisogno di raggiungere il salotto, aprire il mobile bar e tracannare un doppio whisky, alla salute dell'alba che sarebbe spuntata di lì a poco.                            

Rassegnamoci a questa verità: la simpatia e l'antipatia sono inversamente proporzionali alla buona e alla malasorte. Ne deriva che chi è oggetto degli strali di un destino quantomeno severo ci sta simpatico, ci fa tenerezza, siamo pronti a dividere con lui la sua pena; chi invece, è baciato in fronte dalla Dea Bendata attira su di sé tutte le nostre riserve, quando non si tratta di ettolitri di invidia extravergine. Orazio appartiene di diritto alla prima categoria di individui, e dunque l'enumerazione delle sue perturbanti immersioni nel sonno potrebbe fermarsi qui. Ma, al pari di chi si alza da tavola con un appetito residuo, anche chi è interessato alle vicende del nostro 'cattivo sognatore' potrebbe denunciare di allontanarsi da queste pagine con un residuo di curiosità inappagata.

A costui, e soltanto a costui, viene fornita un'approssimativa – 'ruit hora' – esposizione dell'incresciosissimo episodio di cui il meschino fu ancora una volta protagonista. E chi ci accusa di sprecare i superlativi abbia la compiacenza di venirci dietro.

Erano pressappoco le due del mattino quando tra le brume che il sonno, siparista di provata esperienza, aveva calato nella mente di Orazio una voce, la sua, gli risuonò amplificata sotto le volte della calotta cranica: «Mi si sono rotte le acque!» Un istante più tardi – i sogni come i film sono soggetti ad un montatore che taglia via le scene di passaggio – un istante più tardi, si diceva, 'egliella' si trovava disteso/a su un sedia ginecologica, con un medico che ripeteva spinga, spinga, del tutto indifferente allo strazio da luilei provato/a.

E Orazio spinse fino a svegliarsi di soprassalto. Ma questa volta, si disse, bando al doppio whisky, questa volta bisogna che vada in fondo alla questione. E che diamine! Un uomo, dopo una giornata di lavoro senza sosta, una giornata in cui tutti ti hanno trattato da uomo e chiamato Cavaliere e non Cavallerizza, non è padrone di addormentarsi, che al quadrivio dei sogni una metamorfosi tale da dare i punti ad Ovidio ti smonta pezzo dopo pezzo, per rimontarti donna!... Intollerabile!

La mattina seguente Corinzia lo trovò in cucina, ancora in pigiama, i capelli ciascuno per suo conto, due solchi violacei sotto gli occhi, il volto pallido ed emaciato di chi ha passato la notte in bianco, ma non una notte bianca qualunque, no: una notte burrascosa che smentiva il suo compito di assicurare ai giusti il sonno di loro spettanza. Aveva lo sguardo fisso nel fondo della tazzina di caffè, come a voler leggere lì dentro il futuro che lo aspettava.

Corinzia ebbe la destabilizzante sensazione di trovarsi al cospetto di un maniaco depressivo, di quelli che trascorrono intere giornate a non perdere di vista una macchia sulla parete. Ma solitamente le vittime di tale patologia sono muti, non emettono suono, potresti anche non accorgerti di loro; mentre Orazio, sempre intento a fissare il fondo della sua tazzina, canterellava «Sempre libera degg'io folleggiare di giorno in giorno», l'arcinota romanza di Violetta dalla «Traviata» del 'cigno di Busseto'.

La donna gli si parò davanti con tutta la determinazione di chi vuole venire a capo di un  fenomeno che la preoccupa, e gli chiese a bruciapelo cosa lo tormentasse da qualche tempo, e se per caso non avesse preso una sbandata per qualche squinzia senza, però, trovare il coraggio  di confessarlo. Orazio, che in cuor suo non aspettava altro, se non rovesciare su qualcuno di estrema fiducia il suo ormai cronico travaglio, le raccontò per filo e per segno tutto quanto gli faceva sanguinare i sogni, sempreché questi ultimi siano dotati di un sistema circolatorio.

Al contrario di quanto il narrante si sarebbe giustamente atteso, una volta dato fondo a tutto il suo malessere verbalizzato in ogni dettaglio, Curiazia passò muta in rassegna tutti gli oggetti della cucina, si grattò la testa (cosa che in presenza del marito non aveva mai fatto prima), si mise un dito nel naso (anche questo era per Orazio un gesto del tutto inedito), e cominciò a parlare con voce da suddiacono: «Consolati. Non capita soltanto a te; e, se è vero che 'mal comune è mezzo gaudio', puoi persino godere per la metà che ti spetta. Anche io da più di un anno faccio sogni che, a differenza di altri dalla vita effimera (all'alba già si vanno dissolvendo), mi restano dentro con i caratteri di una perturbazione capace di opporsi ad ogni anticiclone della mia volontà. Se quanto ti ho detto non basta a mettere pace nel tuo intimo, sappi allora che una volta ho sognato di essere in prossimità di un altare per ricevere  la prima visita del Signore, ma ero nella fila dei maschietti, maschietto anch'io; e, dal momento che i sogni condividono con le ciliege il destino per cui una tira l'altra, qualche tempo dopo in pieno sonno mi sono ritrovata a toccarmi, ma non con gli strumenti e le modalità caratteristiche delle adolescenti, bensì con quelli dei giovanetti; come se non bastasse, nel sogno successivo con il mio sesso maschile defloravo senza alcun rimorso una compagna di liceo tutta casa e chiesa, menandone poi vanto tra i colleghi; infine, sempre in sogno, mentre reggevo tra le braccia un urlante marmocchio, mi è accaduto di esclamare  con solennità 'ringrazio mia moglie che mi ha saputo dare un magnifico erede'. Hai capito che roba?»

Per quanto alterata nel volto come nella parola, Curiazia non lo sembrava abbastanza agli occhi, o meglio alle orecchie di Orazio; se non altro per essere stata capace di non darlo a vedere durante tutto il tempo in cui i suoi sogni avevano imboccato quel rischioso ponte di corde sull'abisso di un'identità traballante, che sembrava attenderla di sotto. Che poi quei sogni fossero alquanto simili ai suoi, differendone soltanto per essere rovesciati, gli creava  una condizione di disagio ancora più pronunciata.

Per qualche giorno l'argomento fu per lui motivo di riflessioni e deflessioni, di mentite e smentite, di ipotesi ed antipotesi; ma ad un certo punto Orazio accantonò il rovello prima che si tramutasse in una 'vessata quaestio', convincendosi che per la donna il fantasma della diversità è affrontato con un minore allarme rispetto all'uomo, e non si tiri in ballo la freudiana 'invidia penis'! Una delle ragioni, e non certo l'ultima, è da cercare nell'indubbio impatto che ancora esercita sul sociale l'abdicazione alla virilità, valore più ampiamente conclamato se messo a confronto con la  parallela muliebrità, da tutti tenuta senza dubbio in minor conto.  

Si poneva, comunque, e senza ulteriori moratorie, la necessità di interrompere questa infausta catena di equivoci notturni, di sogni 'en travestì', anche perché la loro assoluta impossibilità di dare spettacolo non offriva neanche il vantaggio di strappare il consenso di un pubblico, come quello di oggigiorno, che attraverso la figura del diverso in scena esorcizza i propri scricchioli psicosessuali.

Bocciati, senza possibili riparazioni settembrine, cartomanti e sensitivi – il livello culturale della coppia era pur sempre tale, da destituire di ogni credibilità ciarlatani e ciurmatori –, e ritenuta ancor più risibile una gita a Lourdes, non rimase loro che immettersi nel tunnel dell'analisi del profondo, disciplina che si avvia a conoscere un futuro di vacche magre, ma intanto continua imperterrita sulla sua strada di scienza che gioca con la coscienza a 'trentuno salvatutti'. Per una serie di vantaggi, non ultimo quello della vicinanza – criterio discutibile: se avete bisogno di un Einstein non è prudente che vi accontentiate di un mediocre professore di matematica soltanto perché è un vostro condomino −, si ritrovarono a frequentare, solitamente da soli, ma qualche volta anche in coppia, un gradevole signore rintanato in uno studio ugualmente gradevole, ma non tanto da non ricordare un paguro; sì, se non fosse stato per il pizzetto e gli occhialini,  un paguro in tutto e per tutto.

La frequentazione del 'Dottor Paguro' durò tre anni e passa, tempo durante il quale toccò ai due pazienti la poco piacevole incombenza di rovistare nel retrobottega delle loro rispettive infanzie, in un'atmosfera di complicità che vedeva l'uno parlare parlare parlare, e l'altro ascoltare ascoltare ascoltare; e questo finché la clessidra delle sedute, rigidamente carata sui  canonici cinquanta minuti, non aveva lasciato cadere l'ultimo granello di sabbia.

Ad ogni buon conto, torna ad onore del terapeuta l'onestà di sganciare, dopo quei tre anni e passa, i due astronauti del microcosmo interiore nell'orbita di uno scomodo  macrocosmo, che poi si riduceva ad un precetto, che peraltro non giustificava del tutto le parcelle da lui intascate: convivere col proprio malessere, accettarlo come un aspetto caratteriale e, volendo, provare ad assecondarlo (consiglio, quest'ultimo, che i due coniugi mostrarono di ascoltare con vivo interesse ma non senza prima essersi tappate le orecchie).     

Il tempo che seguì vide i nostri due coniugi spogliarsi dei panni di pacifici cinquantenni, per indossare quelli di due sconsiderati giovinastri, assidui frequentatori di discoteche nel dichiarato intento di fare l'alba e dunque ridurre al lumicino il tempo dei brutti sogni. Ma, a chieder loro di esser sinceri fino in fondo, ancorché con una certa esitazione avrebbero confessato di puntare tutto su un malaugurato incidente da sabato notte, al quale contro ogni soffiata da parte del buon senso affidavano una funzione liberatoria; il tutto a danno della vita diurna.

Finché una sera,  non senza prima essersi annunziato con una telefonata, non li venne a trovare un vecchio compagno di scuola, tale Ponticelli Amilcare. E quella sera avvenne una sorta di miracolo. Forse perché i due lo consideravano il più sciocco dell'istituto, forse in quanto scoppiavano dal bisogno di svuotare le loro coscienze ormai colme fino alla linea di tracimazione, forse vattelappesca perché, durante una cena rabberciata alla meno peggio marito e moglie misero il vecchio amico a parte dei loro triboli, senza risparmiargli un solo dettaglio. In quel torrenziale 'auto da fé' tanto meno vennero trascurate considerazioni del tutto personali o retropensieri appena appena di un qualche interesse da parte di chi li aveva concepiti. 

Corrugata la fronte, reazione che il Ponticelli presentava anche quando gli veniva chiesto  quanto facesse due più tre, dopo qualche istante di comatoso silenzio egli espresse il suo anodino parere nei seguenti termini: «Avete provato a separare i letti?»

Sia Orazio che Curiazia, troppo beneducati per scoppiare a ridergli in faccia, ricorsero a quell''escamotage' che accorre sempre in aiuto a chi si è cacciato tra i rovi dell'imbarazzo: cambiarono discorso.

Ma l'ipotesi prospettata da quel bonaccione del Ponticelli non lasciò la casa dei due cattivi sognatori al seguito di colui che l'aveva formulata. Per qualche giorno i due coniugi ci dovettero pensare e ripensare, anche se quel pensiero e quel ripensiero non mancavano di insufflare in loro una cospicua dose di ilarità, mista ad una stagionata  disistima nei di lui confronti.

Finché una notte in cui tornarono dalla discoteca più provati del solito dalla stanchezza, e di conseguenza meno padroni della loro razionalità, non decisero di mettere in pratica il risibile consiglio ricevuto dal Ponticelli, e dal confortevole talamo coniugale passarono a due lettini dalle misure  conventuali. Le conseguenze, ancorché del tutto inattese, non si lasciarono attendere: la mattina seguente sia Orazio che Curiazia avevano recuperato nei sogni la loro identità sessuale di sempre; per di più, ne avevano combinate di cotte e di crude (ma questo ciascuno di loro se lo tenne per sé).

Ah Ponticelli Amilcare, quanto è stata ingiusta l'umanità nei tuoi confronti con l'esiliarti nella Sant'Elena della stupidità!



















 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




 

Androgino
Congiunzione degli opposti
da: Aurora Consurgens
Codex Renoviensis 172
Svizzera, tardo XV secolo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



Mani
Odilia Liuzzi, Mani


 

 
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