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Parlando di eutanasia

di Gherardo Vitali Rosati
  Una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 20/09/2008  
È giunto alla sua conclusione il percorso di Stefano Massini attraverso il carcere e i suoi abitanti: Versione dei fatti, presentato in prima nazionale al Teatro delle donne di Calenzano, chiude la Trilogia del parlatorio, mettendo in scena il confronto fra una donna e la sua giovane avvocatessa. La struttura rispecchia da vicino i due precedenti spettacoli: Figlia di notaio (2006) che trattava dell’incontro, dietro le sbarre, di una giovane brigatista e della madre scrittrice di mezza età, e Zone d’ombra (2007), che metteva a confronto un professore universitario e la figlia violinista.

Un prigioniero e un visitatore, inizialmente refrattari al dialogo, poi finalmente più disponibili. E, come regolarmente – accade sempre nella drammaturgia di Massini – un colpo di scena, un finale che nel giro di poche battute sconvolge la lettura della pièce, rivelando, come in un giallo, informazioni fondamentali ma ancora non dette. In questo caso è solo alla fine che, ascoltando la «versione dei fatti» della detenuta, si capisce finalmente il motivo che la tiene in prigione (purtroppo però già annunciato dai media) e si comprendono anche – almeno in parte – le ragioni di alcuni suoi bizzarri comportamenti.

Barbara Valmorin e Luisa Cattaneo
Barbara Valmorin e Luisa Cattaneo


È accusata di avere ucciso suo figlio, da sedici anni in coma irreversibile. Anche se la sua «versione dei fatti» è di non aver ucciso il ragazzo, ma le macchine che lo tenevano artificialmente in vita. Fra lei e l’avvocatessa c’è un abisso: da una parte le rigide regole da codice civile, dall’altra la profonda sofferenza di una madre. Interpretata con grande realismo e finezza da una straordinaria Barbara Valmorin (recentemente sul grande schermo con L’amico di famiglia e L’ora di punta) questa vecchia poco collaborativa sembra trovare nell’avvocatessa (Luisa Cattaneo) l’incarnazione di tutto ciò che da anni combatte. La fredda e giovane professionista vorrebbe relazionarsi con lei con formule giuridiche, frasi fatte, moduli da riempire. Per lei il “colloquio” è quello che inizia quando si accende il registratore, mentre la sua cliente con le macchine ci ha sempre combattuto, e anche con le scadenze, che riempiono la bocca della sua interlocutrice. Certo è che le due donne avranno poca possibilità di capirsi, tutto ciò che alla fine, dopo tante esitazioni, potrà dire la detenuta, sarà liquidato con due parole: «giuridicamente irrilevante». 

Fatto di silenzi, di piccoli movimenti e di sguardi lo spettacolo di Massini è ben calibrato e incalzante. La quasi totalità dello spazio – curato da Paolo Li Cinli – è occupata dalla Gabbia (è una parte del titolo della Trilogia), chiusa su tutti i lati, che imprigiona la detenuta e la sua ospite. Gli spettatori sono disposti su due file, come a spiare segretamente l’incontro. All’interno di questo dispositivo si percepisce ogni minimo movimento – purtroppo anche quelli del pubblico – e lo spettacolo può esser recitato con estrema delicatezza. In questo pare perfetta la Valmorin, il cui personaggio calmo e attento alle sfumature è incarnato con estrema naturalezza. Certo diverso è il caso dell’avvocatessa, che deve essere «di plastica», come osserverà la detenuta; ma quella che vediamo in scena è una stilizzazione troppo caricaturale.

Indagando importanti problemi di attualità sotto la luce del parlatorio di un carcere, Massini ha il merito di tentare di parlare dell’oggi, e di farlo con un lavoro preciso dove nulla è lasciato al caso. Ma nel suo lavoro si coglie un certo compiacimento che finisce per ridurre fortemente l’impatto dello spettacolo, scadendo nel retorico. Basti citare la tirata finale della protagonista, che, intenta a rivivere gli attimi più drammatici della sua vita, che l’hanno avviata al carcere, inizierà tutte le sue frasi con la locuzione «Versione dei fatti è che…» per prendere in giro il vocabolario secco dell’avvocatessa. Massini cerca il ritmo, e lo fa dando vita a sequenze in cui le parole vengono scandite sillaba per sillaba incastrandosi perfettamente le une nelle altre. E anche abusando di figure retoriche, come l’anafora citata, che annientano le profondità dei personaggi, mettendo in primo piano l’abilità tecnica dell’autore.





Versione dei fatti (La gabbia 3)
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