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Prima della prima

di Paolo Patrizi
  Una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 15/09/2008  

Revisioni critiche e restauri filologici, talvolta, danno vita a operazioni fin troppo “da laboratorio”. Ecco qui a Jesi in prima ripresa moderna – poche settimane dopo le recite di Montpellier, con cui lo spettacolo è coprodotto – La Salustia, opera d’esordio di un Pergolesi ventiduenne (e purtroppo destinato a lasciare questo mondo di lì a quattro anni), dunque ghiotta occasione per compulsare quelle che, nella locandina, vengono definite «le radici del genio»: tanto più che il festival jesino, salomonicamente diviso tra l’uno e l’altro genius loci toccato in sorte alla bella cittadina marchigiana (l’altro è Spontini, per la verità nativo della vicinissima Maiolati), ha messo quest’anno in programmazione anche l’opera prima spontiniana (il misconosciuto Li puntigli delle donne). Tuttavia nella Salustia qualcosa non ha funzionato. Colpa dell’opera? Colpa degli interpreti? Forse, anche, colpa dell’operazione in sé.

Che una rassegna incentrata su due soli autori debba affiancare alle esecuzioni un piano di studi musicologici, come in otto anni di vita è sempre accaduto al Festival Pergolesi Spontini, è cosa benemerita: per una partitura degli anni Trenta del diciottesimo secolo – quelli in cui si circoscrisse la brevissima parabola creativa pergolesiana – la presenza di un’edizione critica non è un optional. Accade tuttavia che i rigori della musicologia non sempre collimino con le esigenze del teatro: tanto più quando, come nella Salustia, ci troviamo di fronte a opere scritte ad personam, destinate a drastiche revisioni laddove il divo per il quale erano state concepite non fosse poi, per qualche ragione, più disponibile.




Nella fattispecie il divo era Nicolò Grimaldi detto il Nicolino, uno dei più celebri evirati cantori della sua epoca; e le ragioni della sopravvenuta indisponibilità erano ineccepibili: Nicolino morì, dopo brevissima malattia, alla vigilia del debutto. Pergolesi dunque si ritrovò tra le mani un ruolo – quello del generale Marziano – dalla scrittura troppo legata alle caratteristiche del sommo castrato per tentare un rimpiazzo. Caratteristiche che erano un virtuosismo mirabolante, ma anche un certo declino: non ancora anziano, Nicolino aveva comunque un’età in cui i castrati, di solito, si erano congedati da tempo dal palcoscenico e il personaggio di Marziano non era quello dell’“amoroso”, ma di un uomo maturo (il padre della protagonista). Un ruolo, insomma, che in altre circostanze sarebbe stato affidato, in quegli anni, a un tenore. Arrivò invece un evirato cantore di nuova generazione, anch’egli destinato a luminosa carriera: Nicolò Conti, alias Gizziello. Ma il suo profilo canoro era troppo diverso, per freschezza e acerbità, dal modello originario, e Pergolesi si orientò – come in linea di principio sarebbe stato più logico – su un Marziano tenore, affidando invece al nuovo arrivato la parte di Claudio, tenorile nella prima stesura (per bilanciare i vari pesi vocali in palcoscenico), ma virtualmente – si tratta d’un fervoroso giovinetto – più acconcio al timbro asessuato e stilizzatissimo di un castrato.

Fin qui il puzzle dei rimaneggiamenti. A Jesi si è voluto tentare una ricostruzione dell’Ur-Salustia, quella che non vide mai la luce per la morte dell’interprete designato: un “prima della prima” che avrebbe avuto senso disponendo d’un interprete di Marziano – maschile o femminile, controtenore o mezzosoprano – in grado di rinnovare i fasti del pur declinante Nicolino in fine carriera. La diligente e corretta Marina De Liso si lascia apprezzare per precisione, musicalità e anche una certa grinta, ma non ha il carisma per rievocare una tale “voce monstre” né la personalità per render credibile un soldataccio – tale, in fondo, è Marziano – en travesti. Al contempo, il ricorso a un Claudio tenore è apparso ancor più controproducente, data la sostanziale inadeguatezza di Cyril Auvity. Mentre le due parti di più moderno interesse drammaturgico, ovvero la coppia formata dalla madre-matriarca Giulia Mammea e dal figlio Alessandro Severo, imperatore manipolatissimo da mammà, perdevano mordente affidate alle voci gradevoli, ma di esiguo spessore e blanda caratura espressiva, del soprano Raffaella Milanesi e del mezzosoprano José Maria Lo Monaco.




Voci più importanti sono invece quelle dei soprani Maria Ercolano (nel ruolo del titolo) e Valentina Varriale (la tormentata Albina, abbandonata dall’amato bene e delatrice per vendetta). Resta l’impressione che la seconda raggiunga la sua rilevanza fonica con un canto un po’ troppo “di spinta”, laddove la Ercolano s’impone per naturale ricchezza della cavata e generosità di vibrazioni. Peccato che dal podio, forse nel tentativo di omogeneizzare il cast, Antonio Florio sembrasse far di tutto per limitare tale ampiezza sonora, comprimendo il più possibile l’espansione di una vocalità tanto ricca. Al di là della mancata valorizzazione delle voci migliori, era proprio dal direttore e dalla sua orchestra – La Cappella della Pietà de’ Turchini, da anni carica di benemerenze nel repertorio settecentesco – che proveniva la maggior delusione: il torrido caldo jesino non avrà giovato alle riserve d’ossigeno dei cornisti, ma certe stonature, la sera della “prima”, erano imbarazzanti. E anche gli archi suonavano stranamente secchi.

In un’opera come questa, dove la drammaturgia è nella musica (a vivificare un impianto convenzionalmente paratattico sono la mobilità armonica, gli inopinati cambiamenti di tempo e le occasionali dissonanze chiamate a sottolineare certi apici del dramma), il regista non può fare molto. E Jean-Paul Scarpitta, in effetti, fa poco: ricostruisce con i costumi – le scene sono molto più astratte – una romanità che, nell’opera, è del tutto pretestuosa; si compiace di affondi didascalici, come il fondale evocante un mare increspatissimo quando Giulia Mammea canta «Se tumida l’onda»; offre un profluvio di mimi e figuranti in funzione gay-lesbo, chiamati a sottolineare quell’ambiguità sessuale che del melodramma barocco è componente statutaria e nella Salustia trova fertile terreno (Albina in abiti maschili, Alessandro Severo talmente succube della madre da svuotarsi d’ogni residuo di virilità…). Sicché quando Claudio dà il benservito ad Albina, dicendole che suo unico amore sono gli onori militari, alla frase «e solo di gloria s’esalta il pensier» appare lampante come la gloria in questione sia l’affettuosissimo efebo che gli fa da luogotenente.




Tra tanta prevedibilità, l’unico tocco apparentemente imprevedibile è lo stravolgimento del finale: nel mezzo dell’happy end Salustia viene pugnalata da una schiava-mima (innamorata della perfida Giulia?) e prende a barcollare agonizzante, mentre tutti gli altri, come se niente fosse, continuano a cantare «Ritorni al nostro cor la bella pace». D’altronde, a suo tempo, anche Andrei Serban volle contraddire il lieto fine dei Puritani con l’inopinata uccisione, al calar del sipario, di Arturo ad opera di Riccardo. Ed è di questi giorni il Gianni Schicchi a Los Angeles per la regia di Woody Allen, dove il protagonista, mentre si congeda dal pubblico, viene accoltellato dalla vecchia Zita. Che l’autore di Manhattan, al suo debutto nel teatro d’opera, conosca così bene il mondo del melodramma da fare il verso a regie come questa?





La Salustia
di G. B. Pergolesi



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