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Il "lott-attore"

di Luigi Nepi
 
Data di pubblicazione su web 07/09/2008  


Due anni dopo la presentazione in concorso del mistico e non certo esaltante The Fountain, il regista americano Darren Aronofsky, torna, in extremis, a Venezia con il suo ultimo lavoro The Wrestler, la storia di un vecchio lottatore di Wrestling (assurdo incrocio tra sport, spettacolo e sadomasochismo nato negli Stati Uniti) e, inaspettatamente, sbanca il casinò del Lido.

 Questo è uno dei casi in cui non è azzardato dire che il film “è” il suo protagonista, non solo perchè rimane in scena dal primo all’ultimo minuto, ma, soprattutto, perchè quella messa in scena altra non è che la vera storia di Mickey Rourke. Robin “Randy” Robinson è “The Ram” (“L’Ariete”), un wrestler che venti anni prima era stato l’incontrastato numero uno di questa disciplina, ma che adesso risulta, nel più classico dei modi, ben incamminato nel suo viale del tramonto. Randy tira avanti la propria esistenza tra ring sempre più periferici e il suo lavoro di magazziniere; vive in una roulotte, della quale a malapena riesce a pagare l’affitto. A tutto questo va aggiunto il tentativo di iniziare la “solita” storia d’amore con la “solita” spogliarellista con figlio a carico (un’insolita e bravissima Marisa Tomei), e il “solito” rapporto problematico con la “solita” figlia, che lo odia. Dopo un combattimento particolarmente cruento “The Ram” ha un infarto; salvato grazie ad un bypass, deve smettere di lottare; lui, inizialmente, pare rassegnarsi a questa nuova vita, finché, quando tutto intorno precipita, decide di tornare sul ring per un ultimo e definitivo incontro.

 Il film ha, effettivamente, un inizio davvero interessante. Aronofsky, dimostrando di aver imparato la lezione dai “classici”, riesce a costruire, sapientemente, una buona attesa intorno alla gigantesca (in tutti i sensi) figura di Rourke, mostrandocelo poco alla volta, arrivando a scoprirne il volto gonfio, devastato dai pugni (recentemente Rourke è stato anche il pugile professionista) e dalla chirurgia dopo oltre cinque minuti che lui è in scena. Anche il nero che piomba improvvisamente nell’ultima scena, lasciando partire le belle note della canzone appositamente scritta da Bruce Springsteen per il film è uno di quei finali che si ricorderanno con piacere. L’ottimo inizio ed il bel finale non riscattano, però, il tono medio generale della regia (soprattutto nelle scena di lotta) e la sensazione di essere davanti ad una storia già vista centinaia di volte. Il merito di Aronofsky è quello di sparire, lasciando che sia Rourke a fare il film. In questo senso, appoggiandosi a Balazs, si può dire che il film è un viaggio sul martoriato ma possente corpo-paesaggio del protagonista, ancora in grado di fornire una recitazione altamente fisica e, inaspettatamente, capace di piangere in modo credibile. Da questo punto di vista diventa comprensibile anche l’attribuzione del Leone d’oro ad un film come The Wrestler, attraverso il quale si è voluto premiare oltremodo un grande attore ritrovato, con la stessa, ingenua, felicità che si prova quando rivediamo un vecchio amico.

Il grande merito di questo film, in fondo, è proprio questo: l’averci fatto ritrovare uno degli ultimi grandi divi “maledetti” del cinema americano, che, dopo la bella prova in Sin City di Robert Rodriguez, interpreta qui il ruolo della vita, vincendo ampiamente la scommessa, dimostrando di essere ancora un grandissimo attore con una prova da Oscar.

Un Leone d’oro per un’araba fenice.













The Wrestler
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