È certamente vero che un festival è il luogo dellazzardo, il luogo di elezione di opere il cui senso e la cui bellezza non trovano spazio nella mente distratta dei distributori ed è più che lecito che un festival abbia unimpronta autoriale di direzione e non volteggi alla ricerca casuale di nomi e prodotti. È anche però vero che un senso ci deve essere, pur nellazzardo, ed è altrettanto vero che se le sezioni laterali sono autorizzate a non render conto a nessuno, quella dei film in concorso una qualche risposta alla domanda “perché?” deve pur darla.
Con le migliori intenzioni ed autentico rispetto abbiamo seguito per 140 minuti (battuto solo dai 147 di Guillermo Arriaga) Gabbla (Inland) di Tariq Teguia, algerino, sperando nella prima inutile ora che il racconto prendesse una qualche piega, che la non trama (un topografo un poasociale viene mandato allinterno del paese per una verifica di fattibilità) si rianimasse un poco allapparizione inattesa di una giovane donna rintanata nel camper che fa da casa al giovane tecnico. Invece il film cambia soltanto direzione, cioè la machina da presa che aveva indugiato lungamente, lunghissimamente, sul silenzioso itinerario del giovane dalla capitale allinterno (Gabbla sta proprio ad indicare lentroterra) si sposta sempre più a sud. Verso il deserto, dove il panorama desolato della città che non riesce a trovare la sua identità autenticamente post coloniale e limmediato retroterra che ancora tenta di metter in piedi i resti almeno tecnologici di quellinfausto tempo lasciano il posto alle inevitabilmente splendide e suggestive immagini del deserto.
Il viaggio prosegue dunque a due, gli incontri sono sempre più rari, i mezzi di trasporto di fortuna sempre un po troppo a portata di mano. Il tempo scorre lentissimo, senza definirsi, fino a che il protagonista giunge in un non luogo in cui il datore di lavoro lo attende: la ragazza che aveva rinunciato alla possibilità di un imbarco clandestino sulla costa spagnola e aveva spinto il protagonista a riportarla indietro, nel cuore dellAfrica, si allontana e, in una splendida immagine sempre più veloce e sempre più smaterializzata, scompare dallo schermo. Il film finisce, con una dedica; pensiamo sia dedicato a lei.
Ciò che non ci è piaciuto di questo lavoro (che certamente sottende una forte inclinazione morale e un non banale invito ad uno sguardo più attento ad un paese che sta appena uscendo da una tragedia che forse loccidente ha, ancora una volta, colpevolmente ignorato) è il compiacimento estetizzante (ci si perdoni per una volta la banalità dellespressione) un “antonionismo” che sa più di scuola di cinema (tra école du régard e paesaggio come espressione dellanima) che di vera urgenza espressiva. Così come labbiamo visto ci pare che lautore corra il rischio di somigliare a quegli inutili giovani intellettuali riuniti al caffè con i quali il film faceva i conti allinizio. Speriamo, sinceramente, di non essere stati allaltezza. Speriamo che qualcuno ci sappia spiegare meglio. Spiegare, non premiare.
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