Visto che i film in concorso sembrano fatti apposta (Miyazaki a parte) per non suscitare particolari entusiasmi, ecco che nelle sezioni collaterali può capitare di imbattersi in piacevoli sorprese, come questo Kabuli kid, collocato nella “Settimana internazionale della critica”. Prima delloccupazione da parte dellUnione Sovietica, lAfghanistan era il paese più democratico ed occidentalizzato del medioriente, mentre Kabul non aveva niente da invidiare alle nostre metropoli. Passati quasi trentanni da quel Natale del 1979, dopo una devastante teocrazia talebana ed unaltrettanto devastante guerra ancora in corso, ecco che questa città si ritrova a fare i conti con una realtà profondamente diversa. Tutto a Kabul deve essere ricostruito o reinventato: i palazzi, le strade, la corrente elettrica, persino le regole («non funziona niente in questo paese» commenta un poliziotto). Anche il cinema deve ricominciare daccapo e Barmak Akram riparte proprio dallinizio, “rubando” a Chaplin lidea (e il titolo) del suo primo lungometraggio: The Kid (Il monello).
Un tassista carica sulla sua auto una donna totalmente coperta dal tchadri, con un bambino in braccio. Il neonato viene abbandonato dalla madre nella vettura e il tassista inizia a girare per la città cercando una soluzione. Alla fine è costretto a portare a casa il piccolo. Per caso entra in contatto con una O.N.G. che si offre di ricompensare con 100 dollari la madre se risponderà ad un annuncio di Radio Kabul. Si presenteranno numerose “madri”, tutte nascoste dal tchadri: il tassista riconoscerà quella vera da un neo sulla caviglia.
A parte qualche manierismo alla Kiarostami (le macerie, i viaggi in auto, ma, daltra parte, il protagonista è un tassista) Kabuli kid è un film ben riuscito, che restituisce unimmagine vera e forte della città afghana, dove si avverte la “flagranza” di ciò che viene mostrato, come già si era visto a Venezia lo scorso anno con il Libano di Sous les bombes. Il regista tratteggia una Kabul operosa e vogliosa di riprendersi; senza, peraltro, cercare di nasconderne limiti, facendoci vedere anche il buio totale che scende durante la notte sulle strade sconnesse e non illuminate, il coprifuoco, i blindati dei posti di blocco, le case senza elettricità, leco degli spari e delle esplosioni, e tanti uomini senza gambe, cicatrici viventi di ferite ancora aperte. Akram, dimostrando di aver capito la lezione di Chaplin, metabolizza il tutto con leggerezza e vivacità, riuscendo a giocare sui registri della commedia, inanellando gag, personaggi e battute, anche autoironiche, inusuali per la filmografia mediorientale («Abbiamo ballato la musica russa, abbiamo ballato quella pakistana e ora balleremo il rocknroll» oppure «Kabul e Kalašnikov» come parola dordine e controparola per potersi muovere dopo il coprifuoco).
Troppo spesso il cinema proveniente da quella parte del mondo viene accostato al neorealismo italiano, ma, in questo caso, scomodare un parallelo con il Rossellini di India può non essere azzardato: le inquadrature dallalto con cui il film si apre e si chiude, il punto di vista scelto e quellimmagine di caos organizzato o di anarchia disciplinata, che ne deriva, non possono che rimandare allopera rosselliniana. Accostamento meritato per un film che ha strappato uno degli applausi più sinceri della mostra.
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