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Virtuosismi per Haydn

di Paolo Patrizi
  Una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 24/07/2008  

“Virtuosismo” è un sostantivo facilmente spendibile per la musica di Haydn: virtuosismo sonatistico, vocale e, perfino, psicologico, laddove l’esecutore riesca a trasmettere senza squilibri la duplice natura – l’equilibrio sonoro del classicismo più aureo esaltato, anziché contraddetto, da caute ma palpabili avvisaglie di preromanticismo – di un compositore che chiude un’epoca e ne apre un’altra. Al Teatro dei Rozzi però, a conclusione della Settimana Musicale Senese, si è visto un nuovo tipo di virtuosismo applicato al mondo musicale haydniano: quello marionettistico.




In realtà, proprio nuovo non è: destinate per quella sorta di paese dei balocchi musicali che era il castello di Esterháza durante Nicola Giuseppe il Magnifico, le opere per marionette rappresentarono, tra il 1773 e il 1777, un momento circoscritto ma non marginale dello sterminato iter creativo di Haydn. Su quattro lavori solo Philemon und Baucis, basato su uno dei più celebri episodi delle Metamorfosi di Ovidio, non è andato perduto: un po’ poco per azzardare la tesi – comunque suggestiva, e da più parti propugnata in occasione di questo spettacolo – che il teatro musicale per marionette fu uno dei principali affluenti di quel fiume che, di lì a qualche decennio, sarebbe sfociato nella nascente opera nazionale tedesca. È quanto basta, invece, per rallegrarsi del recupero di un gioiellino dimenticato, appartenente alla famiglia del Singspiel, dunque con un ampio ricorso ai dialoghi parlati (la partitura reca la definizione “azione teatrale con canto”), e riproposto a Siena con il solo materiale musicale di sicura provenienza haydniana, senza quegli innesti di altri autori che si sedimentarono nel tempo.




È spettato a una storica compagnia marionettistica come Carlo Colla e Figli di farsi carico dell’operazione, con Eugenio Monti Colla, penultimo anello generazionale della dinastia, chiamato a firmare regia e versione drammaturgica. Era proprio quest’ultimo il compito più ingrato: senza voler rinverdire l’annoso dibattito sull’Haydn drammaturgo deficitario o drammaturgo incompreso, sta di fatto che il compositore non si preoccupa di far trasparire dietro il mito quell’allegoria del contemporaneo che era, in fondo, il vero interesse di Ovidio. Qui non l’aiuta neppure l’ironia, benché spesso le sue opere ne fossero provviste: Philemon und Baucis è totalmente privo di quegli spunti umoristici e sensuali che, novant’anni dopo, caratterizzeranno il Philémon et Baucis di Gounod.

Deragliando anche nei fatti rispetto al poema latino (manca proprio la metamorfosi di Filemone e Bauci in quercia e tiglio), il libretto si limita a una variazione sull’antico tema dell’amato bene morto e riportato in vita: a resuscitare grazie alla benignità degli dei qui sono il figlio e la nuora dei due anziani protagonisti. Ma Colla sa bene come tutto ciò, in quest’opera, avvenga all’insegna d’una stilizzazione e una sintesi – implicite nella natura del Marionettentheater – che impedisce una vera articolazione drammaturgica. Stando così le cose, lo spettacolo punta sulla dimensione fantasmagorica e illustrativa: e lo fa con quel virtuosismo strepitoso di cui si diceva all’inizio. Alcune istantanee (un pavone che fa la ruota, la fuga di un’oca destinata alla padella…) restano indelebili nella memoria: non solo per la sapienza tecnica nell’arte della manovra dei fili, ma per eleganza figurativa e senso pittorico. Al di là dei singoli momenti, ciò che però lascia più ammirati è la musicalità dello spettacolo marionettistico, la sua plasticità perfettamente calibrata sulla tavolozza sonora di Haydn. Quasi una “partitura visiva” giustapposta a quella pentagrammata.




Opera di personaggi volutamente elementari (marionette, appunto, non caratteri), Philemon und Baucis trova la propria profondità nella dimensione strumentale più che in quella vocale. Dalla tempesta evocata nella sinfonia al catartico Do maggiore della pacificazione finale è l’orchestra a reggere i fili, psicologici e narrativi, della vicenda e la direzione di Fabio Biondi scandaglia ogni recesso fonico. La dimensione drammatica, però, sembra quella privilegiata. Senza nulla togliere alla fondamentale castigatezza del suo mondo musicale, l’Haydn maestro di Beethoven qui esce fuori chiaramente: gli archi dell’ensemble Europa Galante sfoggiano sonorità scure e intense, senza quella fobia per il “vibrato” che, spesso, affligge i complessi specializzati nel repertorio barocco e classico.

I cantanti – collocati accanto all’orchestra, mentre in palcoscenico agiscono le marionette – hanno offerto prove alterne ma, nell’insieme, apprezzabili: la debolezza della protagonista femminile (Marivi Blasco, dai suoni molto fissi) è stata compensata dalla musicalità e scioltezza (pazienza se in alto si sente un po’ di fatica) del secondo soprano Gemma Bertagnolli e da una ben differenziata coppia di tenori. Carlo Vincenzo Allemano, infatti, regge bene la tessitura baritenorile del vecchio Filemone, mentre Magnus Steveland si destreggia con abilità, pur dovendo ricorrere spesso a emissioni in falsetto, nell’assai più acuto ruolo del figlio Arete.

Due sole recite, purtroppo. Ma con il pubblico in festa.





Filemone e Bauci di Franz Joseph Haydn recensione di Paolo Patrizi



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