Compositore fedele allinversione dellassioma “prima la musica, poi le parole”, Poulenc riuscì nellimpresa di flettere in prosa cantabile testi di Apollinaire, Cocteau, Bernanos: come nel Debussy di Pelléas et Mélisande, o in certo Pizzetti, ne scaturì un Wort-Ton Drama dove la compenetrazione parola-suono trovava il proprio compimento in un classico della letteratura preesistente, e senza che nel musicista il tecnicismo necessario a unoperazione del genere soffocasse la freschezza dellispirazione. Se però la sinteticità dellApollinaire delle Mammelle di Tiresia e del Cocteau della Voce umana consentirono un travaso sostanzialmente integro del testo letterario, per il Bernanos dei Dialoghi delle carmelitane – lavoro concepito allorigine come sceneggiatura cinematografica, dunque con unalternanza di quadri ben più abbondante duna pièce tradizionale – il primo problema fu la selezione del materiale. Poulenc riuscì a risolverlo grazie alla musa dellellissi: tanti tableaux (dodici in tutto, spesso separati da interludi) che rendono davvero lidea, più che della compiuta cadenza narrativa, duna serie di “dialoghi”. Sacrificò molto – soprattutto nella seconda parte – alla chiara articolazione del plot, ma il pessimismo religioso e lo spiritualismo anarchico dellautore del Diario di un parroco di campagna ne uscirono tuttaltro che banalizzati.
Non è un caso se, a mezzo secolo dalla “prima”, questopera così moderna gode duna rinnovata fortuna esecutiva: prestigiosi allestimenti dei Dialogues si sono avvicendati in vari teatri dEuropa negli ultimi anni, e quello diretto da Muti per la regia di Carsen (a Milano per due stagioni) non è che uno dei tanti. Tra cotanto senno non sfigura questa produzione, proveniente dallOpera di Zagabria, proposta al Festival di Lubiana: unedizione priva di nomi dello star system (ma il mezzosoprano Zlatomira Nikolova, poco nota fuori dellarea ex iugoslava, è una gloria nazionale), eppure solidissima per qualità musicali e amalgama complessivo. Anzi, se il quintetto protagonistico femminile ha un punto debole questo è proprio lunico elemento estraneo alla compagnia stabile del teatro: la guest star Dagmar Schellenberger, fino a qualche tempo fa in auge pure nei palcoscenici italiani, che plasma una Blanche di modeste attrattive vocali (lespansione lirica è pregiudicata dallaridità timbrica) e interpretative (una perenne tensione forse epidermicamente efficace, ma che toglie progressività drammatica al personaggio).
Ormai in fine carriera, è invece la Nikolova a dominare in palcoscenico nella parte di Madame de Croissy. La voce, inequivocabilmente matura, è tuttavia integra per volume, tenuta di fiati, colore: una volta tanto la vecchia priora viene affidata, sì, a una veterana, ma che canta tutte le sue note, senza doversi arrangiare con un generico declamato o un vero e proprio “recitato”. Autenticamente mezzosopranile, seppure alle prese con una tessitura anfibia, è anche la voce di Dubravka Šeparović-Mušović, che ci restituisce tutte le ragioni di Mère Marie, rendendo lo spettatore partecipe dei tormenti dun personaggio con cui non è facile entrare in empatia. Alle prese con una scrittura vocale ora calligrafica ora scomodissima (la Tebaldi, per la quale Poulenc aveva concepito il ruolo, preferì rifiutare) Željka Martić si ritaglia un bel primo piano nellentrata della nuova priora, pur annaspando un po – quanto a fiati – nel monologo del terzo atto. E Marija Kuhar è forse la più “in parte” di tutte, per come utilizza in senso espressionista la propria voce di soprano leggero: liniziale isteria religiosa delladolescente Soeur Constance trova una rappresentazione efficace in certe note acutissime, mentre il canto morbido e disteso poi impresso al ruolo sigla il suo trapasso verso una fede senza più ombre di psicosi e superstizioni.
Meno probanti gli interpreti maschili (il più a fuoco è il tenore Dejan Vrbančić, nella breve ma icastica parte del cappellano) e notevole invece la prova dellorchestra: Michael Helmrath dirige un complesso di esemplare compattezza negli archi e, nellinsieme, assai apprezzabile pure nei fiati (qualche sbavatura solo nellinterludio tra secondo e terzo quadro), offrendo una lettura analitica, che esalta lindagine ritmica di Poulenc e limplacabilità di certi “ostinati”, ma anche lafflato vocale della partitura.
Krešimir Dolenčić firma una regia scarna ed elegante, molto attenta alle luci, con un parco uso di proiezioni (usate in senso sia descrittivo sia evocativo), puntuale nella cura della recitazione senza essere invasiva per i cantanti. E non mancano, nellepilogo, un paio di soluzioni tanto sobrie quanto di grande effetto. Da un lato Mère Marie collocata fuori scena, in una gradinata digradante verso la platea, durante il supplizio delle consorelle: una maschera dangoscia che illustra perfettamente come il vero martirio sia quello dellunica superstite, più che delle condannate. Dallaltro il modo con cui le carmelitane si avviano al patibolo: la ghigliottina viene rappresentata da un semplice taglio sghembo di sipario, mentre a ogni andar giù della lama (di volta in volta evocato dallorchestra di Poulenc) la vittima di turno si allontana silenziosamente, congedandosi dal pubblico e dalla vita.
I due intervalli – anche se gli spettatori per lo più hanno preferito uscire dalla sala – offrono un supplemento di spettacolo: per tutta la durata del primo le suore rimangono in scena, vegliando il cadavere della vecchia priora e intonando un atipico canto gregoriano (registrato) per sole voci femminili; mentre nel secondo i rivoluzionari, a convento ormai espropriato, intonano la Marsigliese e giocano a carte. Ecco due casi in cui la regia si sovrappone, teoricamente, alla musica: ma con perfetta logicità, e dunque non disturbando affatto.
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Lettera da Lubiana Les Dialogues des Carmélites di Francis Poulenc
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