Figura nel cartellone della Bayerische Staatsoper da varie stagioni ed è, tra le messinscene del Tristan und Isolde attualmente in circolazione, la più amata dai critici tedeschi. O almeno così sembrerebbe dando una scorsa alle rassegne stampa. La ragione? Questo, per la regia di Peter Konwitschny, è il più ottimista dei Tristani possibili, in cui davvero la morale della favola è lamore che travalica la morte. In effetti il protagonista, esalato lultimo respiro, qui ricompare sul proscenio accanto alla sua Isotta, che allo stesso tempo intona il proprio monologo di trasfigurazione. E tuttavia il fatto che al calar del sipario, mentre la coppia di amanti si allontana, appaiano sullo sfondo due tombe, amorosamente vegliate da Marke e Brangäne, dovrebbe mettere in guardia da eccessive illusioni verso un Tristano a lieto fine.
Ciò che interessa, però, non è tanto se, nella drammaturgia messa in atto da Konwitschny, lottimismo della volontà prevalga sul pessimismo della ragione o viceversa. È invece istruttivo prendere atto di come la critica tedesca che mostrò di non gradire il taglio registico impresso da Chéreau alla Scala lanno scorso si sia riconosciuta in uno spettacolo che in Italia, quasi certamente, subirebbe un duro ostracismo, da parte di wagneriani e non. Ma qui scattano le strutturali differenze tra il regietheater tedesco e gli allestimenti italiani: lì estremo bisogno di concettualizzare e diffidenza per il non detto, a costo di scantonare nel didascalico; da noi gusto più narrativo che speculativo, e nessuna pregiudiziale verso eventuali ellissi. E ancora: in Italia anche se ormai, probabilmente, non per molto è impossibile prescindere da un senso estetico di fondo; per i teatranti tedeschi, e forse per i tedeschi in generale, il “bello” è lultima delle preoccupazioni.
© Wilfried Hösl
Sarà quindi il caso di limitarsi ad annotare lassoluta mancanza di senso estetico dello spettacolo (scene e costumi, molto infelici soprattutto sul piano cromatico, sono di Johannes Leiacker), piuttosto che infastidirsi per esso. Ciò che lascia perplessi non è tanto la bruttezza del divanetto giallo che appare nel duetto damore: disturba che quello stesso divano nel tentativo, da parte del regista, di borghesizzare lHandlung wagneriana venga scaraventato in scena dal protagonista a mo di alcova. Né, per la stessa ragione, è un bel vedere Brangäne che, sulla tolda della nave, legge sulla sdraio una rivista femminile; o lagonizzante Tristano che proietta diapositive su un muro scrostato. Altrove è possibile lamentare soluzioni antimusicali: la voce fuori scena del marinaio è sostituita da un marinaretto in carne ed ossa che serve un vassoio di cocktail alle due donne, così come il canto che dovrebbe provenire invisibile dallalto di Brangäne durante il duetto viene visualizzato, mostrando lancella tra i due amanti (unimproprietà in cui cadde pure Chéreau) e trasformandola più in mezzana che in angelo custode. Non manca però qualche trovata ingegnosa: la presenza della ciurma della nave, nel primo atto, durante unazione che è totalmente intima e privata (problema per la regia di ogni Tristano) viene risolta attraverso un effetto cinematografico, con il palcoscenico che scorre come in un piano-sequenza, trasportandoci, senza soluzione di continuità, dal ponte di coperta con Isotta e Brangäne agli altri ambienti, con Tristano, Kurwenal e i marinai.
Chiamato a governare la parte musicale di uno spettacolo nato ben prima della sua nomina a direttore stabile della Bayerische Staatsoper, Kent Nagano sigla una lettura policroma e stratificata che, collocando semmai in sottordine la temperie tardoromantica e predecadente, scandaglia sia la dimensione melodica (il Wagner geniale rielaboratore di Bellini viene fuori con chiarezza) sia le inquietudini “novecentesche”. Sotto il primo aspetto il direttore ottiene unautentica cantabilità dallorchestra, e se cè un limite è proprio quello che, arrivati a «Mild und leise», la Bayerisches Staatsorchester “canta” più di quanto riesca a fare la voce sommamente espressiva, ma oggi alquanto spigolosa, di Waltraud Meier. Mentre sotto il secondo profilo il grande duetto del secondo atto (nonostante Nagano applichi il brutto taglio di tradizione nel lungo intervento del tenore) si rivela in tutta la sua dolorosa follia di grido disperato, più che di canto damore.
La Meier è, come si diceva, una protagonista usurata (il timbro in alto si prosciuga, gli acuti suonano stridenti), ma di primordine quanto a talento interpretativo e vis declamatoria (lo sdegno furibondo del primo atto è il momento migliore). John Treleaven, sebbene agevolato dal taglio, è invece un Tristano nella media di oggi, ovvero con gravi problemi di tenuta nel terzo atto e occasionali sbandamenti dintonazione. Non è comunque facile, guardando allattuale panorama tenorile wagneriano, trovare di meglio. Il veterano Jan-Hendrik Rootering ha ancora la pienezza di suono per plasmare un re Marke nobile e dolente, ma il meglio viene dalla coppia dei servi: Michal Volle è un Kurwenal con la robustezza fonica dellheldenbariton e la freschezza del guerriero poco più che giovinetto; mentre Michelle De Young volto magnetico e presenza da valchiria conferisce a Brangäne uno spessore coprotagonistico. A dispetto del già ricordato strafalcione del regista, è il suo canto che si aggiunge a quello dei due amanti il momento più bello della serata.
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