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Sacralità, menzogna e sortilegio

di Siro Ferrone
  Esodo
Data di pubblicazione su web 27/01/2001  
È difficile che la verità della vita - anche quando è così dolorosa che sembra imporsi da sola, per forza propria, senza bisogno di artifici trucchi o invenzioni registiche - resti tale una volta trasferita sul palcoscenico. Appena sotto le luci dei riflettori che si accendono e si spengono, in mezzo a attrezzi e scene di cartapesta, davanti a un pubblico che 'interpella' la scena, anche gli attori "presi dalla strada" tendono a diventare falsi e l'evocazione che essi fanno di avvenimenti "realmente accaduti" sembra, letteralmente, una citazione fuori luogo. Come se la sacralità della morte e delle tragedie che vengono evocate venissero infamate dal gioco della menzogna e del sortilegio teatrali.

Pippo Delbono sta da tempo provando e riprovando a dare un corpo "rappresentativo" alla sua troupe di stranieri, immigrati, sbandati, barboni, zingari, handicappati, malati di ogni sorta, messi insieme senza nessun pregiudizio d'elezione. Da Barboni a Guerra a Her Bijit [vd. l'articolo di Carmelo Alberti, La Biennale Teatro di Venezia, in «Drammaturgia», a. VII 2000, n. 7 pp. 178-80] fino a Esodo, Delbono ha creato spettacoli sulla strada e sui palcoscenici, con un'apertura ecumenica e una straordinaria pazienza laica, per dare un senso ai rappresentanti dell'emarginazione e dell'oppressione razziale e sociale (ebrei, curdi, Rom, palestinesi, ecc.).

E questi spettacoli sono la rappresentazione di una toccante fragilità che riesce a essere poesia purché non pretenda di diventare predica. La credibilità morale e estetica traspare nella purezza della figurazione: scenografie e luci tenute a una temperatura teatrale, ma non tanto da tradire l'impaginazione verosimile dei corpi; movimenti "veri" anche se "coreografici"; valori plastici che sono "naturali" e sognati. I tableaux, grazie ai corpi dei figuranti non-attori, parlano di tutti i mali del mondo, dalla Palestina all'America Latina, dai paesi slavi all'Africa del Nord, senza pretendere di esibire l' esclusiva dell'genocidio.

Peccato che anche qui, quando dal grido e dal lamento si passa al discorso articolato, quando si citano con una certa ingenuità le "bibbie" di Pasolini e Brecht, quando si fanno letture che superano la mezza riga d'imprecazione, e lo stesso Delbono interviene dalla sala con microfono in mano, avendo fatto mostra di sé, novello Kantor tra gli spettatori, allora - anche qui - la predica prende il sopravvento. Si fa insomma ricorso al teatro-teatro: questo vorrebbe essere un'arma ed è solo una protesi impropria, che ottiene l'effetto opposto. Toglie verità alla fragilità fino a quel momento rappresentata. Nell'illusione di renderla più forte, con quelle parole enfatiche dette al microfono dalla voce fuori campo, in realtà la falsifica. Ma sono piccoli tradimenti in una poesia autentica.

 
Esodo
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