Il piccolo tubo del neon scende di sbieco, e si appoggia alla veranda gessata. Parte bene, con una S che si protende quasi sul marciapiede; ma poi si spezza in lettere più anonime, per finire in una r minuscola appena accennata. Il supporto di metallo nero si è piegato, e così la scritta si inclina verso la fine della strada, nella periferia dei pali scuri della luce, verso Pico e Sepulveda, Los Angeles.
Lui sa che è sera dalla gente che lo circonda. Ora, arriveranno presenze prima solo indovinate – dietro un portone, lungo un marciapiede, dentro una lavanderia. Appena il sole diventerà più grande e rosso all'orizzonte ‘quelli inizieranno la loro giornata, silenziosi e quasi strisciando, e lo guarderanno, le mani gialle dentro i jeans con lo spago, le scarpe senza stringhe. Vede cambiare i colori, tutti verso il grigio e il perlaceo. ‘Quelli srotolano giornali avvizziti sui marciapiedi e si preparano a prendersi la notte. Come Romero, e i morti viventi. Altro che retrospettiva di Fellini, il giorno dopo a Ucla.
La scritta al neon è violacea, e frigge. Sul vetro bianco della porta una freccia di scotch verde punta verso la maniglia rotonda; sopra, all'altezza degli occhi di chi sta per entrare, hanno scritto HEELS con un pennello celeste. Non c'è altro, ma sul vetro, dalla parte di dentro, una tendina a pieghe lascia passare il chiarore. È aperto, open.
Dentro, è come se ci fosse già stato. Interni sepolti, attrezzi da artigiano accanto a macchinette elettriche di seconda mano, spigolose; polvere; calendari; scaffali storti. Immigrati. L'uomo che prende le scarpe e le appoggia al tavolo è basso e ricciuto, e non parla; dietro la mezza porta, lui si siede su una poltroncina, davanti a uno sgabello di vimini. Aspetta. Spera che tutto finisca presto. Una volta, a Downtown, il sole calò senza che se ne accorgesse, e lui si trovò a un tratto in mezzo agli uomini marroni dai capelli unti, messicani e chicanos – lui bianco e quasi biondo. Lo guardavano senza odio, come si guarda un intruso: anche allora, si sentì sgomento.
– Where are you from? Italy? –. Sempre così: questa volta, più che l'accento, sarà stata l'etichetta all'interno.
– Ya.
L'uomo basso non alza la testa, e stacca lentamente il tacco nero. Forse sta pensando se il papa sta a Roma o a Venezia, e se il Colosseo è a Firenze. Dietro c'è un poster, chissà di quando e di chi, con un'immagine di mare. Lui la guarda, proprio per non sapere che fare.
– Do you like the sea? – evidentemente l'uomo ha capito che stava guardando il poster: come abbia fatto, poi. Lui risponde di sì, che il mare è una delle cose più suggestive che ci siano (ha detto proprio così, suggestive, e non sa neanche come gli è venuto. Devessere anche sbagliato. È ' che proprio non sa che dire, mentre l'altro tira su un chiodo da un tacco consumato).
– Is there the sea, near your town? – l'uomo basso lascia la pinza, e allora lui lo guarda. Ha un maglione senza camicia, e pantaloni grigi; i capelli ricci ricoperti di polvere sottile, e la pelle un po' scura.
- Are you from Italy too? – gli è venuto senza pensarci, e mentre lo sta dicendo spera di no, perché non ha voglia di discussioni sulla pizza di Avellino, o sul formaggio abruzzese.
– No, sir: Armenia – ha alzato la testa, e ha sorriso un poco. – Armenia, you know? – Il sorriso rimane leggero sulla faccia, le mani continuano il lavoro sul tacco, lente e come prima. Quelle non sorridono, pensa. – I love the sea. Is there the sea, near your town? –
– Ya, mare Tirreno, Tirreno Sea – chissà perché l'ha detto. Il mare non è vicino a casa sua. Ma da laggiù, le distanze di casa sembrano diverse. E poi, gli è sembrato che l'altro se l'aspettasse, ripetendo la domanda. – Is there the sea in your country too? – : lha detto così, perché a questi dialoghi da poche lire cè abituato, una volta può essere il sole, unaltra il cibo, o il soccer. Questa volta è toccato al mare, e adesso sta mentalmente cercando nella memoria dove collocare l'Armenia.
Dio, speriamo che faccia presto. Che ne so io dellArmenia, del mare dellArmenia. Che mi interessa di questo qui, che sarà arrivato chissà quando, chissà come, chissà perché. E magari mi sta anche rovinando un bel paio di scarpe. Chissà cosa starà accadendo fuori, a questora. Lui è lì da qualche minuto, e vorrebbe già andare via, senza aspettare le scarpe con il tacco rimesso, senza parlare con quelluomo basso e mite, senza essere costretto a ripensare a quello che ha lasciato, a quello che gli sembra di avere già perduto.
Intorno, il negozietto è silenzioso, si sente solo il ronzio della macchina per modellare il tacco nuovo. La polvere sottile che ne esce si ferma sulle mani, sulle ginocchia, sui vestiti delluomo, come se fosse sua e gli appartenesse. Se ne alza solo un poco, e riverbera il chiarore della stanza, il pallore che viene dai vetri. È assurdo stare lì, seduto su una poltroncina stantìa, in quella polvere fine, in quellodore di chiuso e di povero, come quando era bambino e andava in cantina solo per la gioia di uscire a corsa, su per le scale, e aprire la porta e farsi accecare dal sole.
Luomo è chino sulla scarpa, che non è più lucida. Lui alza gli occhi da sopra il banchetto, così per sbirciare cosa diavolo dovrà infilarsi dopo, quando esce e ha appuntamento al ristorante. Magari un tacco marrone su una scarpa nera. Si chiede chi glielha fatto fare di entrare lì dentro, in quel chiuso, in quella miseria. Sempre così. Fo le cose e poi me ne pento. Ben gli sta. Ma intanto ha voglia di saltare di là, strappargli la scarpa Made-in-Italy, leggera, morbida, mica come quelle di plastica che quel coglione ripara tutti i giorni accidenti.
– Do you like the sea, here in Las Angiòles? –. Ha detto proprio così. Las Angiòles. Cristo, ma come si fa? Questo starà qui da quarantanni, e ancora non sa come si pronuncia la città dove sta di casa.
– What about my shoes? –. Almeno si cambia discorso. E poi a lui del mare ora non gliene frega nulla, veramente, e sta lì a guardarsi le calze fini, dove tra poco si incastreranno due scarpe che un quarto dora prima erano belle (comprate a Firenze, mica in Armenia perdìo), e ora chissà.
– So beautiful. Never seen shoes like these –. Ecco, lo sapevo. Lui si allunga più che può sul collo, ma luomo lavora basso, su un banchetto che si indovina di legno, dai colpi che ci tira sopra. Con la coda dellocchio vede di nuovo il poster, polveroso. Accidenti al mare, e a chi gli piace.
A lui piace un mare, il mare. Beh, detta così fa anche un po ridere. Come a me piace un monte, la montagna. A me piace un lago, il lago. No, non è la stessa cosa. Che senso dellumorismo di merda, Madonna. È proprio vero che lambiente è tutto. E con quel nano ricoperto di polvere, cè poco da ridere. Chissà se cè qui vicino un altro Shoe repair. Magari in un Mall di lusso. Entro e me li rifaccio attaccare, un paio neri e lucidi, belli. Questi li butto nel mare, così galleggiano. Fino in Armenia.
Fuori si indovina il buio, più o meno. Ora gli tocca chiamare un taxi, farsi capire dal driver che chissà da dove viene e quando è arrivato (una settimana fa, magari), spiegargli la strada, zoppicare (sicuro come la morte) fino al ristorante che quello del taxi di certo non conosce e lo lascia mezzo chilometro prima, scusarsi con i colleghi e la collega carina, nascondere le scarpe sotto il tavolo – speriamo che non sia allaperto, anzi lo sarà come vederlo con la fortuna di stasera – scherzare sui tacchi spaiati. Di sicuro. Questo qui non finisce neanche se gli tiro un martello. Sono quasi le sette e mezzo. Il solito italiano che arriva in ritardo. Risolini. Fine della simpatia della collega bella. Porca miseria e accidenti allArmenia.
– Are you ready, please? Im really in a hurry, sorry –.
– Just a moment, sir –. Speriamo. – So, tell me something about the sea, the sea near your town. Is it great? –.
Great. Ma che cavolo.
– No. Tirreno sea. Its calm. Its a little, pretty blue calm sea. I love it. Therere some cute little towns, near the shore. Viareggio. Forte dei Marmi. Also Pisa. Do you know Pisa? La Torre? Torre che pende, Leaning Tower. You know? –
Beh, chissà perché gli è uscito. Bisogna pur dire qualcosa, mica posso stare mezzora a guardarmi le calze e a girare i pollici. O gli alluci. O chissà come si chiamano in inglese o in armeno. O chissà come si dice Torre pendente – i suoi amici dicono tutti così, mica si traduce Piazza san Pietro, o Castello Sforzesco.
Si ricorda quando è andato lultima volta sulla Torre, con suo figlio piccolo. Si ricorda dove hanno fermato la macchina, in divieto di sosta. Multa. Chi se ne frega. Era tutta la mattina con suo figlio. La paura a guardare di sotto, dalla parte che pende. Lui gli si aggrappava al collo, stretto. Bello. Proprio bello. Poi il ristorante, anzi la pizza. La pizza a Pisa, diceva lui. E rideva. Hanno anche mandato una cartolina, e lui gli teneva la mano perché scrivesse il nome, agli amici allasilo. E alla mamma? Dopo, dai, ora finisci che si fredda, Poi gli è dispiaciuto di avergli detto di no. Che stupido. Magari lui se ne ricorda per tutta la vita. Ora che esco gli mando una cartolina, magari col mare. Ci scrivo anche di salutare la mamma, tanto ora sa leggere. Tanto ora magari le cartoline non le legge neanche più..
– … about your sea, sir? –. Che ha detto? – Sorry, I didnt understand –. Gli è venuto anche di schiarirsi la voce.
– Do you often think to the sea near your town, sir? – si corregge laltro. O forse era giusto prima.
– Ya. I love my sea. I miss it –. Gli è venuta così. Si pente subito. Sarà stato il ronzio del macinino di quel poveruomo. In realtà a lui il mare non è mai mancato. Non sa che farsene del mare. Non sa neanche nuotare.
– You re right. I can undestand, sir. I miss my sea too –.
È inevitabile. – Is it a good sea, your sea? –. Che gli deve dire? Magari gli fa piacere. È un emigrato. Pazienza. Quelli aspetteranno. Mica può arrivare con un tacco solo.
– Oh. – Luomo alza la testa impolverata e sorride. Ha denti regolari e bianchi, un sorriso un po mesto. – Oh, yes. So tender –.
Ha detto tender o there, here? – So you like the Ocean here, too –, azzarda.
Luomo si ferma, col martello in mano. Lo guarda con due occhi scuri e quasi lucidi. Sembra spaventato.
Chissà che gli ho detto, pensa lui. Mai parlato con un armeno. – Sorry –. Non si sa mai.
– Oh no, sir. I hate the Ocean. You dont know. There are awful fishes inside. Terrible. They can kill you. –
E si avvicina. E ha in mano due scarpe, lucide, belle, morbide. Di Firenze, Made-in-Italy. Lui le prende, come unofferta. Le guarda. I tacchi sono nuovi, lucidi, perfetti. Dio, che scemo. Luomo sorride, di là dal banchetto. – Try it, please –.
Entrano come guanti. Non scricchiolano neppure.
– Thank you , really –. Non sa dire altro. – How much is it? –
– Youre welcome. Nothing at all. Its a pleasure for me to repair such a wonderful shoes. Its a gift, from Armenia. I hope you can go back home, sir. Soon. Go there. Say hallo for me to your tender Tirreno sea. Please. –
Lui esce, e non dice nulla. Non prende neanche il taxi. Aspetteranno, tanto gli italiani sono sempre in ritardo, anche con le scarpe morbide. È buio, le forme confuse degli zombi sono già in strada, hanno srotolato i loro giornali vecchi, hanno fissato in terra i carrelli del supermercato con le buste di plastica gonfie. Qualcuno si lamenta.
Devo andare in albergo. Internet. Ecco. Google. Armenia.
È piccola, laggiù nellEst. È anche verde, sembra. Ci sono montagne, città. Guardare meglio. Non cè il mare. Neanche lombra. Neanche un flutto, neanche un pochino di blu. Niente.
Si mette le mani sul viso, e piange.
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