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La morte della regia

di Giulia Tellini
  Ascanio Celestini
Data di pubblicazione su web 07/04/2008  
La sera del 28 e 29 marzo 2008, Ascanio Celestini è al Teatro Puccini con La pecora nera. Elogio funebre del matrimonio elettrico. Si tratta di una partitura testuale composta da Celestini sulla base dei racconti autobiografici di persone che, da lui intervistate in giro per l'Italia dal 2002 al 2005, hanno avuto a che fare, in un modo o nell'altro, con l'istituzione manicomiale. La mattina del 27 marzo, il giovane "attautore" romano ci parla di questo spettacolo, di cos'è secondo lui il cosiddetto «teatro di narrazione» e di cosa significa per lui essere «come un burattinaio, ma senza i burattini».  

Stasera e domani è al Teatro Puccini con La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico: si tratta di uno spettacolo cui ha cominciato a lavorare fin dal 2002 e che riguarda l'istituzione manicomiale. Può parlarci della genesi dello spettacolo?
Nel 2002 ho cominciato a intervistare persone che avevano conosciuto il manicomio e soprattutto gli infermieri: come prima cosa mi interessava circoscrivere il campo d'indagine. Per un fenomeno così importante, infatti, chiunque sarebbe stato intervistabile: pazienti, infermieri, medici, ma anche i parenti dei pazienti, degli infermieri e dei medici, e anche quelli che abitavano nei dintorni del manicomio. Perciò ho cercato soprattutto di intervistare gli infermieri, perché sono quelli che stavano molto tempo sia fuori che dentro al manicomio: sono insomma quelli che erano veramente presenti dentro i manicomi. Molto spesso infatti il medico nel manicomio era un po' un fantasma. Anche dalle cartelle cliniche si capisce che il paziente non veniva visitato praticamente mai dal medico: nei primi tempi sì, appena veniva portato dentro. Poi le visite avvenivano una volta la settimana, quindi una volta al mese, e una volta l'anno. L'infermiere invece, anche se spesso faceva soltanto un lavoro di convenzione, era sempre lì, sempre presente. Contemporaneamente però l'infermiere stava anche fuori dal manicomio, perché a differenza del paziente poteva uscire fuori e vedere le differenze fra dentro e fuori. Per cui ho fatto queste interviste: dal 2002 al 2005. Se ho iniziato a interessarmi alle storie del manicomio è perché mi interessava raccontare la fine di una grande istituzione. Di fatto la rivoluzione psichiatrica è avvenuta nel 1978 con la legge Basaglia, quando sono stati chiusi tutti i manicomi: invece poi mi sono reso conto che in realtà i manicomi esistono ancora. E non semplicemente in senso metaforico. Esistono per davvero, come per esempio i manicomi criminali che adesso si chiamano «ospedali psichiatrico-giudiziari». Ci sono ancora manicomi pubblici ed esistono un'infinità di manicomi privati, che spesso svolgono anche la funzione di manicomi pubblici, dato che molti pazienti vengono chiusi in queste cliniche anche a spese del pubblico, vale a dire per esempio della regione. Infine esiste ancora quella mentalità psichiatrica istituzionale che fa sì che ex pazienti del manicomio, che adesso magari vivono in una casa popolare o in un alloggio di tipologia differente, vengano seguiti ancora come quando stavano nel manicomio e quindi sostanzialmente trattati come bambini.


La pecora nera
La pecora nera

Ha paragonato il suo metodo di lavoro a quello dei geografi antichi che andavano in giro a intervistare i marinai di ritorno dai loro viaggi e che, esclusivamente in base a quanto veniva loro raccontato, cercavano di disegnare le carte geografiche. Come mai questo paragone?
Perché a me il dato scientifico della ricerca interessa fino a un certo punto: mi interessa non tanto per fare emergere un dato oggettivo quanto soprattutto per non fare troppi errori. Per il resto, nel momento in cui scrivo la storia, per me è una storia e non un reportage giornalistico. A me interessa scrivere una storia che sia una storia d'invenzione. Mi interessa che quell'invenzione abbia dei presupposti di concretezza. Sì, questo è indispensabile. Ma in fin dei conti, comunque, alla fine si tratta di una storia di carattere letterario.

Rispetto ai suoi spettacoli precedenti che parlavano tutti del passato, dalla prima alla seconda guerra mondiale, La pecora nera parla del presente. Di un arco di tempo che va dal 1960 a oggi più o meno.
In realtà per me non c'è una enorme differenza fra parlare del passato e parlare del presente. È vero che lo spettacolo Radio clandestina parlava delle Fosse Ardeatine e quindi del 1943-1944 ed è vero anche che Scemo di guerra parlava più o meno dello stesso periodo. Ma per me raccontare quelle storie, anche se erano storie relative al passato, era legato a motivazioni che sono collegate al presente. Parlare delle Fosse Ardeatine, per me, oggi, significa parlare di un meccanismo che viviamo tuttora. Se continuiamo a ricordare quell'episodio a sessant'anni di distanza, evidentemente ci sono dei motivi per cui per noi è importante parlarne ancora. E non tanto per l'eroismo di chi è morto o per il martirio in sé, che molto spesso è legato a una motivazione tutta istituzionale e alle volte addirittura di propaganda (in questi giorni per esempio si parlava alla televisione delle Fosse Ardeatine e c'era una sfilata di politici che ne parlavano), ma in qualche maniera perché gli stessi meccanismi di quella storia li abbiamo poi rivisti in altri avvenimenti. L'idea che alle Fosse Ardeatine siano morti tutti ebrei, o comunque tutti comunisti e tutti romani, è una falsa idea. Lì morirono persone che venivano da tutta l'Italia. Morirono persino alcuni tedeschi. Il fatto di riportare la storia accaduta ad alcuni individui verso una immagine istituzionale, nazionale e patriottica è un meccanismo che si mette in moto sempre. La stessa cosa è successa l'11 settembre del 2001 a New York, quando già dal giorno successivo si diceva «Siamo tutti americani»: non era una voce popolare, era il titolo di un articolo uscito sul «Corriere della sera» e scritto dal suo direttore. E questo «siamo tutti americani» era precisamente il contrario di quello che in realtà è successo l'11 settembre, dove sono morte, lì nella torre, persone che appartenevano a 85 nazioni diverse. Parlare del passato per me è sempre stato, in realtà, parlare il più possibile di avvenimenti che ci riguardano ancora. Detto questo, certo, nella Pecora nera io parlo del manicomio negli anni Sessanta, dei manicomi di oggi e anche dei supermercati. Perché credo che alcune storie del passato ci riguardano ancora, ma il presente ci riguarda tutto.

Dicono che lei fa parte della seconda generazione del teatro di narrazione... Cosa ne pensa?
Mah… io non sono sicuro neanche che esista un teatro di narrazione: alcuni attori che facevano un tipo di teatro che potrebbe essere definito tradizionale, altri che avevano sperimentato una maniera di produrre spettacoli molto legata a un lavoro collettivo, altri che facevano soprattutto teatro di strada e teatro per ragazzi, nel corso degli anni Novanta, hanno incominciato ad andare in scena da soli. Per alcuni è stata una questione di produzione. In un momento nel quale si sono moltiplicati i gruppi e si sono chiuse le possibilità di lavoro, andare in scena da soli significava poter facilmente produrre uno spettacolo e portarlo in giro. Oggi non è più così. Nel senso che, se è possibile, per una persona che fa teatro, oggi si sono ridotte ancora di più le possibilità di lavoro. Soprattutto all'interno delle istituzioni teatrali, un attore che lavora da solo è una contraddizione rispetto ai meccanismi, rispetto alle direttive ministeriali. Per cui io credo che, più che un teatro di narrazione, in Italia ci siano state  persone che andavano in scena da sole. Però con una motivazione precisa. Sia quelli che erano partiti dal teatro di gruppo, sia quelli che avevano problemi produttivi, tutti quanti si sono trovati in scena a parlare direttamente al pubblico, senza la rappresentazione del teatro, senza la finzione del personaggio. E forse è proprio questo che serve al teatro: non gli serve magari il racconto o la narrazione in particolare, dato che questa è una scelta mia personale, quanto il superamento della rappresentazione.

Prima che un attore o un uomo di teatro in generale, lei si sente soprattutto un autore…
Io credo che sia indispensabile, per una persona che si trova a fare soprattutto teatro, ma anche musica o altre cose, il fatto di non essere un anello nella catena di montaggio. Che ci siano persone che si definiscono attori e basta mi sembra molto fordista come pensiero: «Io avvito bulloni e basta. Non mi chiedere altro», «io dò l'olio alla macchina; non faccio altro». Di fatto, un bravo attore è sempre stato anche un autore. Ma non solo negli anni Sessanta o Settanta, con Grotowski o con Peter Brook. No. Anche in una compagnia amatoriale e filodrammatica, un bravo attore è sempre stato anche un autore. Che poi alcuni decidano di lavorare secondo modalità in qualche maniera dell'inizio del Novecento, con un regista che fa la regia, sta seduto e spiega il testo e insegna agli attori come muovere le mani, che ci siano attori che imparano la loro parte a memoria e si fanno dirigere dal regista per capire come devono dirla, che ci sia lo scenografo che si occupa solo delle scenografie, che in alcuni casi - insomma - accada che ci sia questo sistema da fabbrica, non c'è niente di male. Stupisce però che ancora oggi, in maniera superficiale, il teatro venga considerato questo qui. E che tutto quello che sta fuori dal «teatro-catena di montaggio» venga invece considerato particolare, «d'avanguardia», «di sperimentazione» o «di narrazione». In realtà l'eccezione è proprio il teatro di regia, che chiaramente è quello che rientra nei parametri dei ministeri, e che alla fine, se funziona, funziona perché il teatro in Italia è quasi esclusivamente finanziato. Per cui, se chi dà i finanziamenti guarda a quei parametri là, il teatro vero e proprio viene considerato quello. Se si trattasse di un teatro che segue i parametri del teatro greco, noi vedremo allora proliferare maschere, coturni e tragedie di sei ore. Però sarebbe morto, come è morto il teatro di regia.


La pecora nera
La pecora nera

Perché, sulla scena, lei racconta storie vere, storie che sono spesso tragiche ed il risultato è che il pubblico ride dall'inizio alla fine?
In realtà nessun avvenimento è di per sé esclusivamente comico o esclusivamente tragico. Le storie che le persone raccontano nelle interviste sono estremamente complesse e, nella loro complessità, possono essere contemporaneamente comiche e tragiche. Io ho intervistato persone che parlavano del campo di sterminio e anche in quel caso raccontavano episodi divertenti. Detto questo, non è che Auschwitz fosse un tendone del circo, per quanto ci sia una scena in Paura e delirio a Las Vegas dove si vedono i personaggi andare in un circo e dire «Ecco! Così sarebbe il mondo se avesse vinto il nazismo!»: in realtà, la contraddizione, la combinazione di comicità e tragedia, fa parte della vita di qualsiasi individuo. Anzi, stupisce che certe volte, per esempio nel giorno della memoria, vengano raccontati episodi tragici in maniera esclusivamente tragica. E se la storia poi non è abbastanza tragica, mettono il bianco e nero col filo spinato. Insomma, la vita delle persone è un sistema complesso, e anche quello che finisce sotto un treno e muore fino a cinque minuti prima non aveva nessuna intenzione di morire, non ci pensava per niente e viveva probabilmente anche una vita felice.

Nella sua rubrica «I viaggi della memoria», ne «I viaggi» del 27 marzo, l'altro giorno, ho letto una sua pagina intitolata «Io racconto». Si concludeva con questa frase: «Io racconto come il burattinaio, ma senza i burattini». Che vuol dire?
Nel teatro di burattini la finzione è palese. Non c'è un attore che finge di essere un personaggio. Non c'è Salvini, il grande attore, che sale in scena col teschio in mano e finge d'essere Amleto. No. Nel teatro di burattini c'è davvero un'altra cosa: non c'è più l'attore, ma il burattino, la marionetta. C'è un oggetto che impersona un personaggio fasullo, di finzione. Perciò, in qualche modo, si supera l'equivoco della persona che non è più se stessa, ma un personaggio di finzione. Si tratta di un tipo di teatro che è decisamente finto, sfacciatamente finto, più finto ancora dei cartoni animati. La finzione è del tutto esplicita. Però, dall'altra parte, c'è un attore. Spesso in questo tipo di teatro l'attore è uno soltanto e muove tutti i burattini. Persino nel teatro dei pupi, palermitani o catanesi che sono quelli più importanti, il "puparo", anche se ha gli assistenti, è lui da solo a parlare. Non presta la voce a un solo burattino, ma a tutti quanti. Per cui nel suo lavoro c'è una polifonia. Dato che quindi è un tipo di teatro sfacciatamente finto, per lo meno nella presenza dell'oggetto di cartapesta che raffigura un personaggio, l'attore che presta la voce, senza la finzione teatrale, può portare in scena tanti personaggi. Questo è un po' quello che faccio io, ma non solo io, ovviamente: raccontare una storia, che è fatta di tanti personaggi, senza che questi personaggi siano interpretati da nessuno. Nel mio caso non c'è nemmeno il burattino, la marionetta, il pupo, a prendersi il peso della finzione. C'è soltanto la polifonia del racconto. Detta così, però, può pure sembrare una cosa complicata, ma è in fondo quello che facciamo quando raccontiamo a qualcuno quello che ci è successo il giorno prima o la settimana prima o quando siamo andati in vacanza. Noi raccontiamo una storia che è piena di personaggi. La raccontiamo talvolta in prima persona, talvolta in terza persona, mescolando presente e passato. Il nostro interlocutore si crea un'immagine della storia che noi stiamo raccontando, la comprende, la capisce. Senza che ci sia la convenzione dei personaggi.   



 



La pecora nera
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