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Una scampagnata nel mondo di Goldoni

Gherardo Vitali Rosati
  Lina Wertmüller
Data di pubblicazione su web 28/02/2008  

Il grande successo al cinema, dove ha ottenuto, fra l’altro, quattro nomination agli Oscar — risultato unico al mondo per una donna —, non ha affievolito in Lina Wertmüller l’amore per il teatro. L’instancabile regista torna dunque sulle scene dirigendo una delle più note commedie di Carlo Goldoni, La vedova scaltra, al fianco dell’inseparabile compagno di vita e di  esperienze artistiche Enrico Job, che ha firmato scene e costumi. In occasione del debutto fiorentino dello spettacolo — fino a domenica alla Pergola — abbiamo parlato con lei di questa sua regia teatrale.

Lina Wertmüller, cosa l’ha portata a scegliere Goldoni e in particolare questa commedia per il suo ritorno al teatro?

È un incontro che prima o poi sognavo di fare. E, perciò, quando mi ha telefonato Raffaella Azim — un’attrice che è stata sempre molto impegnata con registi di nicchia — invitandomi a fare questa “scampagnata” nel mondo di Carlo Goldoni, sono stata ben felice. Anche perché La vedova scaltra è una commedia speciale: in fondo è la prima tutta recitata senza nessuna parte a soggetto e quindi è una commedia storica, bellissima. Noi ci siamo molto divertiti a farla, con attori deliziosi e con la bizzarria di far fare Arlecchino a un napoletano, Gianni Cannavacciuolo, che ha studiato come un pazzo, sperando che i veneziani lo perdonino.



 

Nel vostro spettacolo avete fatto alcuni tagli al testo di Goldoni,  quali criteri avete seguito?

Goldoni, dovendo scrivere per compagnie già formate di comici, dove c’erano le vecchie maschere (Pantalone, Brighella, etc.), doveva scrivere per tutti. E tante volte nelle commedie si sente che certe parti sono fatte perché c’erano degli attori che dovevano recitarle. Noi abbiamo un po’ snellito il testo e gli abbiamo dato un taglio che mi sembra incontri il massimo favore del pubblico.

Il suo spettacolo si svolge tutto intorno a un grande letto…

È un’idea di Job, perché Rosaura è una donna sola, vedova, che è stata sposata da giovane con un vecchio signore, quindi in questo letto non ha veramente conosciuto l’amore. È una donna che cerca l’amore, il suo compagno, la persona giusta: il letto è il simbolo di una ricerca. Job ha creato una scenografia bellissima: quando fa delle scene Enrico impone anche una regia, una visione concettuale del testo, e in questo il regista è molto favorito.

Lavorare con il proprio compagno può essere bello, ma anche difficile, per voi com’è stato?

Alla base c’è una grande stima, che vuol dire anche bellissime esperienze, ma anche grandi litigate. Ma devo dire che lui ha sempre un occhio così attento, intelligente, analizza i testi molto profondamente; quindi nel nostro caso è stata una gran fortuna. I miei film non sarebbero stati quel che sono stati se non avessi avuto il suo occhio di artista che mi ha aiutato.



 

Lei dice spesso di aver capito veramente di voler fare la regista quando ha conosciuto Fellini…

Lei purtroppo non ha conosciuto Fellini; chiunque l’ha conosciuto sa benissimo che arricchimento è conoscere un artista come lui: così libero, così fantasioso, così personale. Intanto sembra sempre di averci passato un’infanzia insieme, di aver rubato la marmellata insieme, perché non ha mai perso il senso del gioco e lo intreccia col senso del mistero e con un’arte tutta sua, che per una persona come me, allora ero una bambina, è stato come aprire una finestra su un paesaggio che non conosci e che ti si rivela. Federico e Job sono personaggi che profondamente ti arricchiscono, ti aprono finestre.

Lei ha diretto film, spettacoli di teatro, opere liriche; ha scritto testi, spaziando in molti ambiti della creazione artistica. Quale delle sue opere l’ha segnata maggiormente?

Non glielo so dire perché sono come tutti miei figli, li amo sempre alcuni per i loro meriti, altri per i loro difetti.




 






 
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