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Comunicare i sentimenti

di Sara Mamone
  "Il y a longtemps que je t'aime"
Data di pubblicazione su web 17/02/2008  
Film d’esordio del quarantacinquenne scrittore e antropologo lorenese Philippe Claudel Il y a longtemps que je t’aime è praticamente un film perfetto, per l’equilibrio rispettoso delle singole componenti, per la narrazione filmica non prevaricante sulla narrazione degli eventi, per l’uso sobrio della macchina da presa, per la maestria discreta nella direzione di interpreti misuratissimi pur nella solidità del loro professionismo. Ed è, merito sempre più raro, un film senza macchiette, senza personaggi minori, senza bambini prevaricanti, un film in cui il senso della misura è chiaramente il segno di una forte moralità; per usare canoni desueti un’opera in cui l’etica si fa estetica. Ed è, miracolo per un film francese di ambientazione borghese, un film in cui i personaggi per una volta (per usare una scherzosa definizione di Nikita Michalkov) non "hanno la cravatta al posto del sesso". Certo il milieu è quello della colta e aggiornata borghesia urbana l’azione si svolge a Nancy), le case sono belle, i riti sono quelli della sociabilità agiata tra buona cultura, buone conversazioni, brasseries confortevoli e case di campagna. Ma. Ma il tema di fondo è serio, anzi grave, e niente affatto conversevole, è anzi un tema tremendo, trattato con pudore e trepidazione: la difficilissima riappropriazione dei sentimenti dopo una tragedia quale l’infanticidio.

Juliette (Kristin Scott Thomas al vertice di un’arte fatta di sfumature e di reticenze) esce di prigione dopo aver scontato una pena di quindici anni per l’assassinio del figlio. Quindici anni di assoluto isolamento da un contesto familiare che non le aveva perdonato il crimine. Il padre è nel frattempo morto nel suo disperato rancore, la madre si è chiusa in una demenza non si sa quanto difensiva e la giovane sorella Lea (l’incantevole e ferma Elsa Zylberstein,) ha vissuto la sua vita, crescendo nella reticenza e salvando così una passabile normalità: ha un marito, due figlie adottive, una bella casa e un bel lavoro all’università. La lunga detenzione e la differenza di età comportano una sorta di estraneità che diventa sempre più palpabile nella quotidianità che Lea ha scelto di condividere con la sorella affidatale dai servizi sociali. Fredda, estranea, rinserrata nel suo dolore Juliette frustra ma non smonta gli sforzi ricostruttivi della sorella che è costretta anche a lottare contro la comprensibile ostilità del marito e le sue perplessità nell’affidarle le figlie bambine. Poco per volta, aiutate anche da un contesto affettuoso ma ignaro, Lea e Juliette ricompongono i ricordi di un passato lontano ma affettuoso e ne fanno la base per un risarcimento fecondo.

 

Tutto procede con lentezza e finezza e gli affetti si ricompongono, la capacità sentimentale di Juliette rinasce dal dolore e dalla solidarietà. E non dà neppure troppo fastidio, anche se a nostro avviso edulcora un poco l’assolutezza del tema, la rivelazione finale di una malattia del bimbo che trasforma il delitto assoluto in tragica ma più comprensibile eutanasia. Il senso di colpa della madre che non la rivela alla giuria ma paga con piena adesione la pena (che durerà evidentemente per tutta la vita) riscatta il rischio di un accomodamento tematico. Non si tratta però di un film a tema né di un Kammerspiel ma di un’opera la cui riuscita travalica ampiamente anche le dichiarazioni di intenzioni: "un film sulla forza delle donne; sulla loro capacità di rinascere". E’ piuttosto un film sulla forza del cinema di rinascere e di riaprirsi alla comunicazione dei sentimenti.



Il y a longtemps que je t'aime
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