drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Non siamo in un dramma di Sam Shepard

di Luigi Nepi
  "La Famiglia Savage"
Data di pubblicazione su web 13/02/2008  
La vecchiaia, o meglio, l’infermità, sia essa mentale o fisica, che quasi inevitabilmente questa porta con sé, è un problema che può riguardare davvero tutti, con ruoli diversi, nelle varie fasi della vita; un problema pressante e presente, capillarmente diffuso e trasversale ad ogni società e, soprattutto, si tratta di un problema fisico, corporeo, oserei dire solido, che non potrà mai essere "virtualizzato" o risolto da internet. Appare questa l’urgenza che ha spinto la regista Tamara Jenkins, autrice anche della sceneggiatura, a realizzare questo film; un’urgenza chiaramente autobiografia, più volte da lei stessa confermata nelle varie interviste realizzate per la promozione del film, dove ha dichiarato di avere attraversato l’esperienza di doversi confrontare con il decadimento psichico di suo padre. Il compito di ricordare la contingenza di questo stato di cose viene affidato al personaggio di Philip Seymour Hoffman (il figlio Jon) che, ad intervalli regolari come una scansione ritmica, ricorda che questa non è una recita, né un film ma che si tratta della "vita vera". "Non siamo in un dramma di Sam Shepard", infatti, è la battuta, sarcasticamente alleniana, con cui lui viene presentato al pubblico, e con la quale liquida la sorella che gli ha telefonato nel cuore della notte per informarlo della situazione del loro padre e della necessità di andarlo a trovare.



La storia è piuttosto semplice: Wendy (Laura Linney) e Jon, due fratelli quarantenni con notevoli problemi relazionali e frustrazioni professionali, devono, improvvisamente, prendersi cura del vecchio padre Leonard (Philip Bosco), di cui avevano perso le tracce e che adesso, per la morte della facoltosa compagna, si ritrova solo, senza una casa, ma soprattutto assolutamente non autosufficiente a causa di una patologia psichica degenerativa in avanzamento. Jon, pragmaticamente, riesce subito a trovare una soluzione accettabile, una casa di riposo, eufemisticamente chiamata "centro di riabilitazione", proprio vicino a casa sua. Il plot, a questo punto, si ferma, non procede per addizioni, non si aggiungono altri problemi, né i protagonisti verranno risucchiati in un vortice di ulteriori disgrazie; l’assicurazione è, stranamente, in regola e la casa di riposo non ha nessun problema a tenere il vecchio (verrebbe quasi da dire "non siamo in un documentario di Michael Moore"). 

Se la storia sembra fermarsi, una simbolica partita a tennis sposta l’intreccio nel diverso modo che i due fratelli hanno di approcciarsi al problema. Wendy e Jon (nomi che rimandano direttamente alla favola di Peter Pan) sono due personaggi con alle spalle una terribile esperienza familiare: la madre è scappata di casa proprio a causa dell’impossibilità di sopportare Leonard, persona violenta e inaffidabile, il quale, a sua volta, era riuscito ad essere contemporaneamente un padre cattivo ed un cattivo padre. Ciò li ha portati ad essere entrambi profondamente soli, impossibilitati a costruire rapporti stabili, scomodamente adagiati in relazioni imperfette, caparbiamente frustrati nell’incompiutezza delle loro ambizioni lavorative e artistiche.

 
Wendy è una donna "precaria": nel lavoro (vive anche grazie ad un sussidio ingiustamente ottenuto come vittima dell’11 settembre), negli affetti (ha una relazione stancamente fisica con un uomo sposato, che va a trovarla con la scusa di portare fuori la cagnetta), ha ambizioni da commediografa ed è costantemente confusa ed indecisa a tutto; infatti, se da un lato non sopporta l’idea di lasciare il padre in un ospizio, seppur sufficientemente decoroso, dall’altro vorrebbe portare sulla scena un subversive autobiographical play, per denunciarne pubblicamente tutta la violenza e la cattiveria.

Jon, invece, è un docente universitario di drammaturgia ed è anche lui "precario": da tre anni ha una relazione con un’immigrata polacca, che preferisce rimandare al suo paese piuttosto che sposare, da sempre è alle prese con un interminabile, quanto fondamentale, saggio su Brecht ed è convinto di aver fatto per suo padre "molto più di quello che suo padre ha fatto per loro". Sognatrice, autoindulgente e piena di false speranze lei; pragmatico, cinico e pieno di finte certezze lui. Alla fine la morte del padre, paradossalmente, li lascerà meno soli e più consapevoli delle proprie capacità.

A differenza della linearità della storia, la struttura filmica ha un andamento circolare compreso tra la scena nella camera dell’ospedale di Sun City, dove per la prima volta si ritrovano i tre protagonisti, e quella nell’identica camera dell’ospedale di Boston, dove per l’ultima volta staranno insieme; la grassa silhouette in controluce dell’infermiera di Boston che va ad accertarsi della morte di Leonard si oppone alla magra silhouette di Wendy che si era "ripresa" il padre all’ospedale di Sun City all’inizio del film. Tracce di questa circolarità sono rintracciabili per tutto il film non solo per situazioni che si ripetono quasi ritmicamente facendo sì che l’immagine torni su se stessa (gli incontri tra Wendy e il suo amante, l’uso scenico dei divani e dei letti); ma anche sottoforma di piccoli rimandi, a volte quasi impercettibili, come per esempio i manuali for Dummies (per idioti), che diventano lo spunto per due gag di tipo diverso: una visiva (quando Wendy segue il video Body’s Care for Dummies per fare ginnastica a nell’albergo di Sun City) ed una surreale (quando ritroviamo l’edizione Elder’s Care for Dummies, come libro di base del corso di sostegno a cui Wendy e Jon partecipano). Il compito di saldare il cerchio è affidato ad un onirico incipit e ad un accelerato epilogo, che, come poli magnetici di segno opposto, finiscono inevitabilmente per attirarsi.



L’incipit, girato in slow motion, ha lo stesso impatto straniante di un videoclip dei Talking Heads (con tanto di esilarante balletto di anziane cheerleaders che sbucano da dietro una siepe) e mostra vedute di Sun City, una specie di Disneyworld della terza età, uno di quei caldi cimiteri degli elefanti, tanto in voga negli Stati Uniti, in cui vecchi ricchi senza affetti vanno a passare gli ultimi anni della loro vita e dove le case vengono vendute ad altri ultrasettantenni prima ancora che si svolgano i funerali di chi le aveva abitate. La forte caratterizzazione di questa scena è decisamente fuorviante, infatti uno dei punti di forza di questo film è proprio l’assenza di stravaganze stilistiche, la Jenkins non vuole distrarre lo spettatore dal tema trattato, quindi si nasconde dietro ad una forma classica, quasi rigorosa, senza virtuosismi; anche quando, nella sequenza del macchinoso imbarco di Leonard sull’aereo, avviene un irregolare scavalcamento di campo per cui la cappelliera in cui Wendy sta mettendo il bagaglio si "sposta" da destra a sinistra per tornare di nuovo a destra, lo sfasamento percettivo che ne consegue non è altro che un voler accomunare lo spettatore alla visione "malata" dello stesso, esterrefatto, Leonard, che di lì a poco perderà i pantaloni e la dignità davanti a tutti i passeggeri.

Il personaggio del vecchio Leonard, magistralmente interpretato da Philip Bosco, viaggia sul filo sottile che divide una consapevole e divertita cattiveria senile dalla demenza; il suo primo gesto inconsulto (scrivere prick, ovvero la declinazione più volgare di pene, sui propri escrementi spalmati con le mani nella parete del bagno) sembra più la reazione esasperata all’imposizione di pulire il bagno fatta dal badante della sua compagna, che l’effettivo sintomo di una patologia degenerativa. Spetterà proprio al cinema sgombrare il campo da ogni dubbio; durante la proiezione nella casa di riposo de The Jazz Singer (scelta fin troppo ovvia, se non fosse che gli infermieri sono quasi tutti di colore), dopo aver (ri)visto la New York della fine degli anni '20, Leonard non riesce a discernere l'illusione di realtà, creata dalla pellicola, dal reale e si scaglia verso lo schermo inveendo e sfidando il padre violento del film (in definitiva se stesso) e confermando la gravità della sua malattia; malattia che però gli lascia evidenti spazi di lucidità, come quando in auto, pudicamente, abbassa il volume del suo apparecchio acustico per non sentire una sterile e cinica discussione tra i figli.




La Jenkis dichiara il suo amore per il cinema infarcendo di citazioni più o meno esplicite tutto il film: i vecchi noir, che Jon guarda in continuazione alla televisione, finiscono per fare da vera e propria punteggiatura tra le diverse sequenze e all’interno delle singole scene; il modo kubickiano con cui spesso viene chiamata Wendy, persino l’evocativa scritta "No Trespassing" alle spalle della stessa Wendy quando conosce Howard, uno degli infermieri che si occupano del padre. Scritta prolettica di ciò che succederà poco più avanti; quando, ai piedi di un divano, Wendy, in uno slancio piuttosto prevedibile, bacerà Howard che però la respingerà gentilmente; alle loro spalle un poster e di nuovo una scritta "Every Day is a New Beginning", chiaro indizio di un possibile lieto fine ed un apparente lieto fine arriva nell’annunciato epilogo…

Per l’argomento ed il modo con cui viene messo in scena, La Famiglia Savage, si discosta dalla deriva giovanilistica di certo cinema indipendente americano, inserendosi nel percorso già praticato da film come Little Miss Sunshine, del quale rifugge gli eccessi, ma non l’ironia, anche se qui è più cupa e claustrofobica. La presenza di attori come Philip Seymour Hoffman e Laura Linney (in una delle sue migliori interpretazioni), nonché la grande prova del "vecchio" Philip Bosco, costituiscono la robusta struttura su cui poggia questo film godibile, dove, però, la forte componente autobiografica e la sua evidente immedesimazione con Wendy, hanno indotto la Jenkins ad indulgere eccessivamente verso i personaggi dei due protagonisti, che, alla fine, grazie alla scomparsa di quel padre tanto opprimente quanto assente, sembrano finalmente trovare un loro equilibrio. Evidentemente "non siamo in un dramma di Sam Shepard".

La Famiglia Savage
cast cast & credits
 






 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013