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Dittico con esodo

di Sara Mamone
  "Gardens of the night"
Data di pubblicazione su web 13/02/2008  
Non basta una precisa presa di posizione morale su un tema terribile per fare un film morale nè ancor meno per fare un buon film. Che le intenzioni di Damian Harris cinquantenne londinese di pura razza artistica (figlio di Richard, ha unito la formazione quotidiana a fianco di David Lean e Sam Peckinpah a quella scolastica alla International Film School di Londra) siano le migliori non si può dubitare neppure un istante. Il suo è un film che il regista sente come coraggioso e che gli fa affrontare senza troppi manierismi e rovelli stilistici un tema, appunto, tremendo: quello della pedofilia. Vuole essere un film di denuncia, il suo, come viene sottolineato dalla incredibile statistica finale dei bimbi scomparsi nei civilissimi States, di quelli violati, di quelli prostituiti.




Eppure c'è qualcosa, nel suo modo di raccontare, nelle sue immagini, che non riesce a coincidere con la ferma condanna, un modo forse troppo elegante, una scelta forse troppo accurata dei due piccoli protagonisti, belli da levare il fiato da bambini e forse ancor troppo belli anche dopo, nella tarda adolescenza irrimediabilmente guasta dalle troppe ferite, dal vero e proprio martirio che li unisce nella raccapricciante vicenda parallela di un rapimento e nella forzata discesa all'inferno della droga e della vendita dei piccoli corpi inermi. La parte migliore del film, nettamente diviso in una sorta di dittico con esodo, sta nella lenta appropriazione dell'anima della piccola Leslie da parte del rapitore, nella ripugnante alternanza di durezza e seduzione, nell'inganno che la spinge a credere nel disinteresse dei genitori, nella lenta sostituzione della figura parentale.




La seconda parte del film procede nella meccanica illustrazione del catalogo di violenze (ormai complici) dei due, cresciuti e divenuti, si direbbe inevitabilmente, sbandati, tossicomani, prostituti, legati da un disperato sconclusionato amore. Il finale che vede la ragazza riportata a casa grazie all'intervento risolutivo di un funzionario di un centro di accoglienza (un John Malkovich talmente antipatico e fuori parte nella parte del buono da chiedersi se non ci sia dell'altro) è amarissimo e conferma che dall'inferno non si torna. Definitivamente estranea in una casa in cui i genitori l'hanno attesa per un decennio consolando la propria vita con la nascita di due fratelli che le fanno sentire ancor più il peso del furto d'amore subito Lesile fuggirà da loro, questa volta volontariamente, e definitivamente. Sorvoliamo sull'analogia tra il gesto del padre che fa il bagno alla sorellina e la luciferina allusione del rapitore alla "normalitä" domestica di certi atti richiesti alla bambina (ampliamento eccessivo della tematica anche alle violenze familiari).

Qualcosa però non quadra nell'insieme del film, forse una reale mancanza di coraggio, di una vera indignatio o forse, ma qui il discorso diventa scabroso e forse da estendersi ad altri film del festival (Tropa de elite), c'è da chiedersi se non ci sia, nell'insistenza della macchina da presa, una componente voyeristica che in non pochi momenti supera, bel bello, il valore della denuncia.




Gardens of the night

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