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Le foto della denuncia

di Sara Mamone
  "Standard Operating Procedure"
Data di pubblicazione su web 13/02/2008  

Può una fotografia cambiare il mondo? La domanda del regista Errol Morris non si riferisce ad una foto qualunque e, per la verità, neppure ad una foto soltanto, ma a dodici: quelle uscite nell’aprile del 2004 dalla prigione di Abu Ghraib, Irak, che hanno sfigurato l’immagine degli Stati Uniti non meno di quanto l’attentato dell’11 settembre avesse sfigurato il volto di New York. Le foto, inaccettabili per qualunque coscienza civile, mostravano dei prigionieri iracheni torturati e umiliati dai soldati americani. Le foto non erano il risultato di una denuncia clandestina, ma della diretta volontà dei soldati medesimi divertiti all’idea di immortalare le prodezze. La domanda che il mondo si pose e che in parte continua a porsi dopo l’inevitabile denuncia e le non gravi sanzioni comminate all’interno dell’esercito riguarda la sistematicità di simili procedure. Sono da intendersi come la devianza personale di un gruppo di sbandati privi di morale o lo specchio di un procedimento sistematico da parte dell’esercito americano?



Errol Morris regista colto di formazione filosofica e di pratica documentaristica (Oscar 2003 per The Fog of War) su Robert Mc Namara ha avviato un’indagine storiografica di tutto rispetto, partendo dall’analisi delle fonti e dall’escussione dei testimoni. Ne ha fatto un film che, se non avesse superato la sempre più delicata barriera che separa il documentario dalla fiction, sarebbe stato ben più che l’uno o l’altra. Sarebbe stata una straordinaria prova di storiografia per immagini. Perché Morris sa fare come pochi altri storia: ha il coraggio di farsi domande consequenziali, ha la forza di perseguire assai meglio della giustizia penale un percorso investigativo fatto di domande (perché e a che scopo furono prese quelle immagini, cosa succedeva fuori dal campo dell’inquadratura etc.) e di testimoni (dalle stupide soldatesse prive di qualunque resipiscenza morale ai sottufficiali impiegati a vario titolo, alla occhicerulea agghiacciante direttrice del carcere). Per due anni da storico ha consumato dossier, ha intervistato tutti i protagonisti americani, compreso il giudice del procedimento penale, sottile interprete del diritto.



Il giudice ha sentenziato una netta differenza tra la tortura (reato, da punire) e l’umiliazione (disdicevole ma non perseguibile in quanto standard operative procedure, normale procedura operativa) E così l’immagine della dolce soldatessa Libby che tiene al guinzaglio ridendo un prigioniero gettato a terra (catalogata nelle procedure standard) resterà negli occhi del mondo come il simbolo della perdita dell’innocenza non solo di un manipolo di fuori di testa ma di un’intera nazione.
Sfiorato il capolavoro di un documentario che si fa Storia Morris rovina quasi tutto volendone fare, come dicevamo prima, un film. Si impantana in intermittenti bellurie ricostruttive (tipo Lucarelli o Chi l’ha visto, sangue che cola, cani ringhiosi, primi piani di oggetti emozionalmente significativi, addirittura momenti di disorientamento tra il "vero" e il "falso" ricostruttivo) perdendo l’occasione di fare l’opera più coraggiosa più bella più straziante più necessaria dell’intera berlinale.



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