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Un Eduardo sfacciatamente metateatrale

di Sara Mamone
  Eduardo De Filippo e Umberto Orsini
Data di pubblicazione su web 12/04/2001  
L'arte della commedia è espressione speculare del gran fenomeno della commedia dell'Arte alla quale, in fondo, l'opera di Eduardo tutta si lega: qui diventa occasione di riflessione di poetica e di etica, addirittura di politica. L'opera, solidamente legata ad un impianto tradizionale, venne scritta nel 1964 (ma già l'idea frullava in testa dai primi anni cinquanta): è un'opera sfacciatamente, appassionatamente, metateatrale. Parla di teatro prendendo di petto il fenomeno, ponendo e ponendosi su di esso alcune domande fondamentali. Forse per questo non ha avuto gran fortuna sui palcoscenici, perché è sì divertente, ma anche terribilmente seria, quasi una sorta di riflessione neppur troppo travestita sul teatro e sulla sua funzione nella società.

Il dibattito negli anni Cinquanta e Sessanta era un dibattito vivo quando i primi teatri stabili cercavano di allargarne la fruizione a tutte le fasce di pubblico ma Eduardo intuì presto (o forse presto aveva già scontato sulla sua pelle) che la protezione poteva coincidere con l'asservimento e che ben diverse erano le passioni e le opinioni degli uomini di spettacolo e quelle dei funzionari da cui sarebbe dipesa sempre più la vita del teatro stesso. E così, con un andamento e una tematica di forte evidenza pirandelliana ma con ben precise - e forse più forti - innervature di costume, non lontane dalla grande tradizione della satira russa, mise in scena una specie di dialogo morale tra due grandi interlocutori: il protagonista, Oreste Campese, capocomico alla vecchia maniera, abituato a recitare con la sua scassata troupe familiare allestendo giorno per giorno il suo capannone, improvvisamente bruciato, e il Prefetto, deuteragonista a cui è affidata la difficile rinascita di questa compagnia boccheggiante.

Molti sono i personaggi di contorno, e attorno ad essi ruota la trama ambigua di un possibile inganno dell'intera troupe che si presenterà di fronte al prefetto travestita (sfileranno dinanzi a lui difendendo le prerogative del proprio mestiere un medico, una maestra, un prete ma non sapremo mai quale è la vera identità di tutti: persone, personaggi o attori). In questa continua ambiguità si consuma lo spasso di una drammaturgia felice e amena. Ma questo è solo l'involucro festoso, c'è una profonda accorata riflessione sul mestiere di attore e i due punti di vista dell'artista e del funzionario esprimono posizioni profonde e inconciliabili. Per mantenere il tono eduardiano e complice, e non perdere la profondità dell'assunto, questo testo ha bisogno di trovare un grande rigore, oltre che un grande amore anche per il più piccolo dei dettagli.

Nell'allestimento di Luca de Filippo c'è tutto quello di cui l'opera ha bisogno. Un solido impianto scenografico (di Enrico Job), una coppia di attori legati da reciproco rispetto ma portatori di tecniche recitative differenti (felicissima l'interpretazione di Luca de Filippo nel ruolo del capocomico filosofo ma non meno efficace l'affrontato prefetto revisore di un Umberto Orsini apparentemente fuori parte ma in realtà lucidissimo nella costruzione grottesca del suo fondamentale personaggio). Correttissimi tutti i personaggi di contorno con una particolare menzione di simpatia personale per Giacomo Franci, perfetto tartufino impiegatizio, segretario del prefetto, tutto viscida efficienza di subalterno e arrogante sicumera con i deboli.




L'arte della commedia
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