Ora che il sipario è calato sulla parabola non solo canora, ma anche umana di Luciano Pavarotti, i tempi sono maturi per tentare qualche riflessione critica, che gli ultimi anni della carriera – allinsegna di una commercializzazione difficile da accettare, se vista con un occhio esterno – avevano reso problematica, sottraendo lucidità a quanti volessero tentare una ricognizione della sua arte. Gli stessi commenti pubblicati allindomani della sua scomparsa sono apparsi umorali: in genere allinsegna di un entusiasmo acritico (comunque comprensibile davanti alla morte di un grande), ma talvolta permeati da quellastio che solo chi sciupa malamente un patrimonio dellumanità – perché questo era la voce di Pavarotti – sa suscitare.
Che Pavarotti sia stata una delle più belle voci di tenore del ventesimo secolo è un dato di fatto, che neppure i più accaniti denigratori mettono in discussione. Che fosse digiuno di nozioni musicali in senso tecnico (come si è più volte sottolineato dopo la sua morte, quasi fosse uno scoop) non solo non significa nulla, ma è un fatto diffuso: molti cantanti della sua generazione, e più ancora di quella precedente, non sapevano leggere la musica, ma ciò non ha impedito loro – con lausilio della sensibilità, dellorecchio e di abili maestri preparatori – di cantare splendidamente anche le partiture più difficoltose. Si pensi a Mariano Stabile ed Ezio Pinza, incapaci di leggere le note eppure magnifici interpreti, rispettivamente, di Falstaff e Boris Godunov: due ruoli tra i più ostici proprio sotto il profilo dellintonazione e della precisione ritmica. Infine, il declino vocale dellultimo Pavarotti – su cui pure molto si è insistito – è un dato fisiologico tuttaltro che eclatante: non è da tutti, anzi, attraversare quarantanni di carriera mantenendosi in forma smagliante per tutta la prima parte del percorso (gli anni Sessanta e Settanta), sfoggiando uno strumento relativamente sano e fresco per un altro decennio ancora (gli anni Ottanta) e cominciando a dar segni di stanchezza solo a partire dagli anni Novanta.
Quello di Pavarotti, invece, è stato un declino di stile, assai più che di voce: solo negli ultimissimi tempi il timbro era diventato, obiettivamente, irriconoscibile rispetto agli anni doro. Da un certo momento in poi – un possibile inizio della fine è ravvisabile nellinfelice Don Carlo scaligero del 1992 – limpressione è stata quella dellinsofferenza ad approfondire, a preparare a fondo i nuovi ruoli (Don Carlo era appunto un debutto), a differenziare stilisticamente i vari personaggi. Sotto questo profilo si può parlare di unaccentuazione di certe sue caratteristiche preesistenti o, se si vuole, duna trasformazione di queste caratteristiche in difetti: Pavarotti – in ciò simile a Beniamino Gigli – era un tenore più di sintesi che di analisi e puntava su pochi, collaudati ingredienti di comprovata efficacia. La sua Gelida manina della Bohème – ci fossero sul podio Schippers o Karajan, Oren o Kleiber – resta sempre fedele a se stessa, con i medesimi effetti collaudati (lestrema apertura del suono alla frase Talor dal mio forziere) e solo impercettibili differenze di fraseggio da edizione a edizione.
È allinterno di questa sorta dimpigrimento dellultimo Pavarotti che, probabilmente, bisogna ricondurre le sue sempre più ricorrenti incursioni nella musica pop (peraltro a fianco di artisti quasi sempre di gran livello) e un fenomeno attinente più al costume che allarte del canto come i concerti dei Tre Tenori. È il Pavarotti che si trasforma da animale di palcoscenico ad animale mediatico: una scelta – come tutte quelle della sua carriera – senzaltro lungamente soppesata, ma che forse non tenne conto del fatto che la volontà di sperimentazione preserva, entro certi limiti, il cantante dal declino, mentre le operazioni commerciali, sulla distanza, enfatizzano il declino stesso.
Artista più comunicativo (nel senso di uninnata facilità nel far partecipare il pubblico alle emozioni veicolate dal suo canto) che comunicatore (nel senso di saper trasmettere un più ampio ventaglio di sollecitazioni espressive), era forse inevitabile che Pavarotti approdasse ai bagni di folla dei Tre Tenori, dando vita a un ‘tenorismo di massa inconcepibile fino a una generazione prima. Nel dopoguerra un equivalente dei quei concerti – con Del Monaco, Di Stefano e Corelli al posto di Pavarotti, Domingo e Carreras – non sarebbe stato concepibile: unidea popolare ma ancora ‘alta del canto lirico, incompatibile con qualsiasi forma di globalizzazione, lavrebbe impedito. E sulla distanza, assai più dei due colleghi spagnoli, è stato proprio Pavarotti a scapitarne: il cantante pop ha progressivamente fagocitato lartista lirico, così come il personaggio pubblico – con tutto il gossip che ne è derivato negli ultimi anni – ha stritolato il Pavarotti privato. Ha conquistato nuovi fans, mentre la critica gli ha voltato le spalle: è triste dirlo, ma solo dopo la morte si è tornato a scrivere bene di lui.
Ma soprattutto se ne è parlato fin troppo. Ora sarebbe auspicabile il silenzio, e che per Pavarotti parlassero i suoi dischi.
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