Quando uno spettacolo schiera un plotone di nomi autorevoli o autorevolissimi, e quando quello stesso spettacolo ottiene il plauso pressoché incondizionato della critica e del pubblico, si è sempre in imbarazzo nellesprimere la propria perplessità. Ci aiutano a uscire senza remore allo scoperto certe considerazioni, in unintervista pubblicata sul programma di sala, di Graham Vick: sulla carta, uno dei due grandi motivi dinteresse – laltro, ovviamente, è il debutto di Mariella Devia nella parte della protagonista – di questAnna Bolena.
Il regista inglese sostiene dessersi basato, nella propria chiave di lettura, su una “certa elegante freddezza”, tanto più che personalmente considera “la storica registrazione scaligera con la Callas, la Simionato e Gavazzeni (il disco live delledizione milanese del 1957, che fece riscoprire questo capolavoro dimenticato dando il via, con il senno di poi, alla cosiddetta Donizetti renaissance: n.d.r.) invecchiata e infedele: è troppo pesante, manca quel certo distacco (...) che voglio perseguire nel mio spettacolo”.
Certo: dispiace veder fare piazza pulita duna serata fondamentale nella storia dellinterpretazione operistica del ventesimo secolo; e dispiace, altresì, veder accomunato in quell“invecchiata e infedele” anche la regia di Luchino Visconti, che – non dimentichiamolo – aveva sposato in pieno il taglio musicale impresso da Gavazzeni. Tuttavia lassunto non potrebbe essere più chiaro e Vick, nel suo spettacolo, lo porta avanti con coerenza, perfettamente assecondato dalla Devia e da Lü Jia: una protagonista e un direttore inclini, a loro volta, più a una fulgida asepsi che a quella mancanza di distacco che il regista rimprovera allAnna Bolena del 57. Dunque, il recensore non dovrà preoccuparsi troppo se non riesce a unirsi al coro degli entusiasti: semplicemente, il suo orologio è rimasto fermo alla Callas, a Gavazzeni, a Visconti. Male da poco, ce ne sono di peggiori.
Anna Bolena. Atto I
Per il resto, è noto come Vick abbia un senso del teatro che, soprattutto in certe sue regie “povere”, gli consente di far recitare anche gli oggetti. Proprio gli oggetti, però, qui lhanno indotto a qualche didascalismo simbolico piuttosto pleonastico: il trono e il letto – il potere e il mezzo per conquistarlo – che campeggiano durante la sinfonia; oppure la corona spinata che cala dallalto, quando la protagonista amaramente commenta “un serto io volli, e un serto ebbio di spine”. Anche la parata, sempre nel corso dellouverture, delle sei mogli di Enrico VIII (Bolena, per lesattezza storica, fu solo la seconda), appare incongrua nel suo sapore disterico defilé. Un notevole momento di teatro è invece la scena conclusiva della protagonista, ormai folle, avviata al patibolo, che Vick risolve con intensa sobrietà di mezzi. Peccato solo che ci voglia mostrare, da dietro una vetrata, il re con la sua terza sposa, laddove è proprio la loro assenza – Donizetti eloquentemente affida alle sole campane limmagine del nuovo matrimonio – a rendere ancor più devastante il delirio della moglie ripudiata e condannata a morte: ed è lunica nota stonata di una realizzazione altrimenti intonatissima.
Lü Jia è una di quelle bacchette che sanno unire precisione ritmica e cantabilità orchestrale, ma il suo Donizetti è apparso tanto centellinato – nei tempi e nelle sonorità – quanto, tutto sommato, poco approfondito. Qual è la difficoltà che pone Anna Bolena a un direttore? Essere incanalata su un doppio binario: equilibri architettonici e frantumazioni delle articolazioni interne, calibrature rossiniane e sollecitazioni romantiche non più procrastinabili dopo Il pirata (che precede la Bolena di tre anni). Il maestro cinese si è fermato alla prima parte delledificio, al Donizetti che si volta indietro piuttosto che a quello proiettato in avanti; senza contare che certi stacchi molto lenti hanno dato limpressione, a più riprese, di mettere a disagio i cantanti.
Mariella Devia è la belcantista impeccabile che tutti conoscono, con la classe di sempre e la voce di oggi: quella che è lecito aspettarsi da un soprano con circa sette lustri di carriera. Che poi sappia dare vita a un vero personaggio, è sempre stato oggetto di discussione; e tanto più se ne può dubitare in un ruolo come Anna Bolena (dove la parola scenica e larte del recitativo hanno la stessa importanza dellinvolo melodico) e in questa fase della carriera (dove la consapevolezza di manovrare uno strumento non più flessibilissimo rischia di bloccare ulteriormente uninterprete già molto controllata). Dunque una prova su cui sono possibili valutazioni antitetiche, a seconda che lo spettatore sia più affascinato dalla perfezione della vocalista o più deluso dalla sua rigidezza espressiva. Al di là dei gusti, restano tre dati concreti: lintelligenza delle variazioni (parche e non banali), una certa nebulosità della dizione e il successo – trionfale – che ha coronato la sua performance.
Più fresca e compenetrata la prova del mezzosoprano Laura Polverelli: morbida e luminosa nel registro acuto come nei centri, meno timbrata nel grave (ma il ruolo di Giovanna Seymour non richiede grandi affondi in tal senso), e molto duttile nel prestarsi al disegno registico di Vick, che imprime al personaggio connotati di torbida sensualità. Francesco Meli è, tra i tenori dellultima generazione, uno dei più dotati: colore molto bello, dizione perfetta, un porgere naturalmente aristocratico. Lappuntamento con il registro sopracuto – non marginale, nel ruolo di Percy – lo trova invece annaspante e al limite dello scrocco, e provvidenzialmente, in unedizione altrimenti integrale, gli unici tagli sono stati i “da capo” dei suoi due momenti solistici. Che sia il caso, pensando anche al suo ottimo Don Ottavio nel recente Don Giovanni scaligero, di orientarsi verso un altro repertorio?
Senza essere un autentico contralto, Elena Belfiore conferisce buon canto e verosimiglianza fisica al ruolo en travesti del paggio Smeton, mentre resta un senso di disagio nellascoltare le condizioni vocali di Michele Pertusi, un Enrico VIII molto opaco anche sotto il profilo scenico: una serata forse eccezionalmente infelice, ma certo da dimenticare.
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