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Così eravamo?

di Roberto Fedi
  "Raccontami"
Data di pubblicazione su web 12/12/2006  
Prendeteci pure per bastian contrari: a noi i "favolosi" (come diceva quello zuzzurellone di Gianni Minà) anni Sessanta non ci sono mai sembrati un granché. Anzi, siamo quasi sicuri che chi li rimpiange in realtà, come succede spesso, rimpiange la sua adolescenza. Che, nel ricordo, è naturalmente mitica, scapigliata, romantica e tutto il repertorio che volete. Sarà.

In realtà in quel decennio, che cominciò bene (i Beatles) e finì male (il terrorismo incipiente, la bomba di Milano), il panorama era desolante: un’Italia provinciale stava galleggiando allegramente sul boom economico, i palazzinari imperversavano, la politica era ormai nel vortice montante della corruzione, la famiglia pencolava fra tradizioni assurde e velleità di allargamento (anche senza i Pacs non era il massimo), il divorzio non c’era e guai a nominarlo, in politica gli italiani erano o comunisti o democristiani o fascisti (il resto non contava nulla). Una società bloccata, preda della politica intesa come struttura granitica e autoconservatrice, che per esempio non colse le novità, che pure c’erano, del fenomeno mondiale della cosiddetta ‘contestazione’ studentesca. Anche il costume era imbarazzante: le canzonette nostrane erano da vergognarsi, la moda era da depressi cronici, la 500 e la 600, che provenivano dal passato recente, erano trappole per topi (a parte il design della prima), l’850 Fiat era da museo degli orrori. La scuola e l’Università erano invece antiquate ma eccellenti, isole nel generale grigiore: infatti, si è provveduto in seguito a distruggerle. Insomma, almeno secondo noi gli anni Sessanta erano una schifezza.

Secondo la Rai invece no. Non si spiega altrimenti che con il ricorso ai luoghi comuni la nuova fiction di RaiUno, Raccontami (domenica e lunedì, prima serata: 13 puntate! – da un format spagnolo), che ripercorre quegli anni ‘favolosi’ attraverso gli occhi e il ricordo di un bambino (che novità), e seguendo le storie di una famiglia-tipo: anzi, secondo quella che per la pubblicità dei biscotti o del detersivo è una famiglia-tipo italiota. Che è più o meno come quella di nonno Libero, solo arretrata di un quarantennio: babbo (faccia naturalmente da bietolone: Massimo Ghini), mamma (un po’ napoletana e di buon senso: Lunetta Savino, che è poi la cameriera di nonno Libero, guarda caso), e vari figli, nonni, nipoti eccetera. Ambiente: Roma (unica città che per la Rai vale la pena de fa’ vvéde).

E questa bella famigliuola che fa? Fa la famiglia de noantri, ma negli anni Sessanta: er papà capisce poco li fiji ma è ‘na pasta d’òmo, e poi ce sta sempre mammà, li regazzini so’ bbravi, ma ‘n poco ‘n crisi; le ragazze so’ tutte fijiette de mamma, anche se civettuole. Il bambino, naturalmente (come sempre nei telefilm italiani) è più falso di quelli che mangiano le merendine negli spot, tra l’altro coi capelli lunghi a caschetto che fanno tanta tenerezza (nel 1960?). La ricostruzione ambientale (la casa, i vestiti) è così accurata che risulta ovviamente artefatta: mai vista per esempio, a nostra memoria, la gente così ben pettinata ‘alla maniera del Sessanta’ in nessuno dei dieci anni di quel Decennio da favola (che è diverso da ‘favoloso’: qui vuol proprio dire quasi da barzelletta).

In questi casi il problema principale è l’aggancio all’ambiente: in altre parole, come fare a far credere allo spettatore che siamo davvero in quel momento storico. Qui gli autori, fra un tenente Sheridan alla televisione e qualche virata flou, hanno fra l’altro superficialmente seguito il metodo americano: che fu quello (ricordate Forrest Gump?) di inserire qua e là qualche canzone d’epoca. Solo che lì l’espediente non era unico, e soprattutto usato con discrezione: era una parte del quadro. Qui, invece, a volte si esagera, fra strilli di Gianni Morandi, o Dallara o Celentano o simili berciatori. Accidenti, ci si chiede, ma che quarant’anni fa la gente non faceva altro che cantare? L’effetto è un po’ ridicolo: per dire, uno sale le scale e si sente Calipso Melody (quello che dice ‘tipitipitìpso col calipso / allor si mettono a cantar / ahiahi, siam messicani…’ – da non crederci), un altro lavora ed ecco Il barattolo (Gianni Meccia, per chi non lo sapesse) o, a scelta, Ciao ciao bambina, idest Piove, un terzo entra al bar e si sente Buscaglione (Piccola: questa un mezzo capolavoro, davvero).

Come sempre alla televisione, manca del tutto lo sfondo politico (che, in quegli anni, era anche troppo forte), qui surrogato timidamente da un comprimario ‘compagno’ (ma almeno nella prima puntata non si nomina mai il Pci direttamente), da un pretonzolo di quartiere (e la Dc che era dappertutto?), da un ex capitano in congedo con pizzo e faccia luciferina, insomma una macchietta, che fa il palazzinaro e che si intuisce tra fascista e democristiano. In compenso c’è una ragazza madre emarginata dai coinquilini come in un paesello della Sicilia più arretrata (ma non siamo a Roma?), e ‘riabilitata’ in una ‘positiva’ riunione di condominio che, se veramente fosse accaduta, ci sarebbe da vergognarsi in qualsiasi decennio.

Su tutto, naturalmente, il lato buono, l’unico, immarcescibile, granitico. La famiglia. Così eravamo? No, per fortuna.





 
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