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Un occidente visto da lontano

di Sandro Bernardi
  Giardini in autunno
Data di pubblicazione su web 30/11/2006  
In un imprecisato paese africano, un ministro francese incontra ufficialmente un capo di stato nero, che gli offre in omaggio uno splendido tucano, in cui si condensa tutta la bellezza della natura. Il ministro ricambia questo dono con un fucile, che il collega ammira devotamente e insieme non trovano miglior cosa da fare che una partita di caccia alle gazzelle, unificando le loro forze per distruggere quella bellezza che hanno doverosamente ammirato.

A Parigi, in una delle splendide sale dell’amministrazione, lo stesso ministro, Vincent, ha ricavato una piccola palestra nascosta, dove riceve l’amante e gli amici, beve, gioca a carte, e si allena mentre i rappresentanti del paese aspettano inutilmente, e dove il tucano finirà come elemento decorativo, accanto a mucche e cinghiali dipinti. Una signora elegante, amante o moglie di Vincent, passa le giornate a fare acquisti nei negozi più eleganti e nelle gallerie d’arte, dove compra una copia in gesso della Venere Cnidia di Prassitele, trovandola "interessante", statua che Vincent, appena arrivato a casa, le intima di eliminare subito, poiché la trova disdicevole per un capo di stato.

Le cose andrebbero bene, per Vincent, se una manifestazione di piazza non lo costringesse a dare le dimissioni, con tanto di insulti da parte del primo ministro ("Lei è un imbecille!"), e a lasciare la palestra, l’appartamento privato, che evidentemente apparteneva allo Stato, e l’amante stessa, che passa al primo ministro. Vincent però non si lascia sconvolgere dal rovescio subito e, come ogni bravo ragazzo, se ne torna dalla mamma, una robustissima e virile vecchietta, magnificamente interpretata da Michel Piccoli, che lo consola e gli permette di tornare ad abitare nella casa della sua infanzia.

Questo vecchio appartamento è però occupato da una famiglia (o molte famiglie insieme) di poveri africani, che si sono ammucchiati lì approfittando della protezione di un vecchio soldato invalido, carico di medaglie, di cui sfruttano la presenza per non venire cacciati. Non è un problema perché, appena lo saprà, il nuovo ministro farà liberare subito la casa del collega spodestato, cacciando anche l’invalido insieme con i neri. Questo nuovo membro del governo è molto diverso dal primo, è palesemente di origini modeste, privo di eleganza, perciò assume sempre un’aria terribile, diffida di tutto e di tutti, ha uno stile sovietico, da socialismo reale e, invece dell’amante di lusso, si porta dietro una enorme pantera addomesticata che se ne sta sempre stesa sul letto (un simbolo?); però con il collega precedente ha in comune una cosa non indifferente, la mamma, alla quale è ancora più attaccato, al punto da consultarla sempre, per ogni iniziativa che deve prendere, attraverso il cellulare (finalmente ho capito a che cosa servono!).

Vincent intanto, ai giardini pubblici ritrova molti amici di un tempo, fra cui un vecchio ubriacone (interpretato dallo stesso Iosseliani) che lavora da quelle parti a "piantare alberi", un imbianchino, un sedicente prete ortodosso, e insieme passano le serate a ubriacarsi in un vecchio bar parigino, che è stato completamente ristrutturato e ora viene gestito da un giovane arabo con il rosario fisso in mano. La casa di Vincent, una volta liberata, viene di nuovo invasa, ma questa volta dai suoi amici, dal prete ortodosso, che è stato abbandonato dalla sua ragazza (?!?!), e da altri gaudenti senza tetto, che fanno baldoria tutte le sere e che alla fine costringono il padrone a cercarsi un altro alloggio.

Ai giardini finirà ben presto anche il secondo ministro, rovesciato da un’altra identica manifestazione di piazza, mentre casualmente incontriamo sull’autobus il capo del governo, sempre più furibondo e ingrugnato, evidentemente cacciato anche lui dal "palazzo". Vincent non lo saluta neppure, e insieme con gli altri se ne andrà dopo molte bevute, a dormire sotto un ponte, dove alfine si ritrovano tutti, ex ministri, famiglie africane, barboni, preti, alcoolisti, e bivaccano, o preparano i sacchi a pelo per la dura nottata che si annuncia.

Giardini in autunno
Giardini in autunno
 
Questi sono alcuni dei tanti gag, brevi episodi assurdi che si concatenano senza tregua, in uno stile frammentario e basato su associazioni visive, che mira a un affresco globale, ma affresco di che cosa? Che mondo è quello dipinto da Iosseliani? Sembra una mescolanza assurda d’ironia e utopia. Non siamo lontani dal clima di René Clair e dal suo capolavoro A me la libertà, in cui i due protagonisti, l’industriale e il barbone, dopo avere assaggiato tutti i "piaceri" della ricchezza e della famiglia, scappano dalla civiltà e se ne vanno insieme cantando e bevendo per le strade del mondo.

Oppure non siamo lontani dalle beffarde pagine dei grandi illuministi francesi del settecento, quando descrivevano il loro proprio mondo con gli occhi di un estraneo. "Caro Usbeck, qui in Occidente sono tutti pazzi", avrebbe detto un immaginario scrittore in questo film, che potrebbe essere un seguito delle Lettere persiane, di Montesquieu. Se il grande giurista, padre dell’Illuminismo, fingeva di descrivere l’Europa attraverso gli occhi di un viaggiatore orientale, Iosseliani non ne ha bisogno, perché è georgiano, e tutto il suo amore per la cultura occidentale non può impedirgli di guadare all’Europa, che mostra di avere la più grande eredità intellettuale della terra, come a un paese di pazzi squinternati.

Ma questa volta il punto di vista è distante da tutte le culture, anche da quella orientale. Ognuno dei personaggi, borghesi, barboni, donne, uomini, bianchi, neri, da qualunque paese provenga, nella mescolanza universale della Parigi contemporanea, ha le sue incomprensibili stravaganze, nessuno escluso; ognuno si comporta in maniera inconsulta, ma nello stesso tempo, come in una favola, tutti hanno in comune una splendida adattabilità, come sapessero accettare i rovesci della sorte e approfittarne per voltare in gioco la vita.

Che Iosseliani sia un adoratore della cultura occidentale, non c’è dubbio, ne fanno fede l’amore che porta ai suoi grandi e piccoli monumenti, dalla Venere ellenica, ai caffé trasformati della vecchia Parigi, alle nascoste citazioni cinematografiche, che non sono poche (Clair, Duvivier, Buñuel), ma tutte invisibili. Ma che sappia guardare con occhio pienamente disincantato alla stessa cultura e ai suoi eredi attuali, ci sono ancora meno dubbi: basterebbe notare che tutte le citazioni hanno un’aria profondamente sarcastica, come se stesse ammirando una nave che affonda, studiandone le rifiniture ormai inutili e disperatamente belle.

Giardini in autunno
Giardini in autunno
 
Il film appartiene a quel filone che si potrebbe chiamare "antropologia sarcastica" poiché non pretende di insegnare niente, meno che mai il cosiddetto famoso "rispetto per l’alterità" che ormai sta sulle bocche di tutti, anche se nessuno sa che cosa voglia dire. A questa prospettiva antropologica, disperata ma divertente, appartengono le varie donne che fanno tutte "mestieri da donna": la prostituta, la mantenuta, lo shopping di lusso, la mamma (ricca o povera, europea o africana che sia), oppure gli animali-simbolo usati come ornamento, il tucano (natura), le mucche dipinte (campagna) o la tigre (aggressività, minaccia).

Antropologiche osservazioni sono anche le scene di cerimonie e di anniversari, gestite immancabilmente dalle mamme, che si risolvono in vere e proprie baldorie e sbornie collettive, o ancora le mescolanze assurde, che sembrano deridere la cosiddetta "intercultura", come il prete ortodosso che va in crisi perché è stato abbandonato dalla sua ragazza, o il barista musulmano, la cui profonda religiosità non gli impedisce di vendere alcolici agli infedeli.

Tutto si mescola con tutto, i riti e i modelli culturali hanno perduto senso, sono divenuti splendidi gusci senza contenuto, forme vuote, attaccapanni a cui ciascuno può appendere la propria vita, scegliendo a caso, oppure secondo il momento. E anche la circolarità viziosa potere/piazza, in cui si risolve la tanto pretenziosa democrazia occidentale, è una sintesi fulminea, popolare, ma saggia e carnevalesca della politica europea, e fa parte di questa visione antropologico-sarcastica. A una manifestazione segue regolarmente un cambio di governo, che a sua volta produce un’altra manifestazione, e un altro cambio ma, per usare una frase di origine italiana, che sembra adatta ormai a tutta l’Europa, tutto cambia perché e tutto rimanga com’è.

Iosseliani non s’inganna neppure sui nostri miti occidentali, come l’idealizzazione delle altre culture ad opera dell’antropologia moderna. In un film precedente, Un incendio visto da lontano, descrive la vita di un immaginario villaggio africano, come lo vedono i nostri antropologi, pieno di "buoni selvaggi", alla Rousseau, dove la frutta e i cibi arrivano per caso dal fiume, galleggiando su tronchi di legno, come se fossero doni mandati dalla buona "madre natura" agli uomini primitivi, suoi figli diletti. La vita laggiù scorre felice, fino a che una ruspa occidentale non distrugge tutto il villaggio.

I buoni selvaggi allora non trovavano di meglio che andare in città dove, per campare, si mettono a vendere le statuine delle loro divinità, fino allora sacre e venerate con infinita devozione. Né gli sfuggono le assurdità del comportamento mimetico fra culture, come in un altro film, Caccia alle farfalle, in cui una vecchia villa francese del Settecento finiva nelle mani di un gruppo di giapponesi, che nondimeno si rivelavano i migliori continuatori della tradizione, perché senza cambiare assolutamente niente, conservavano sia l’edificio sia la tradizione, a tal punto che vanno tutte le domeniche alla messa (?) in bicicletta, come prima facevano le anziane padrone di casa.

Con una splendida inconcludenza, Iosseliani trascorre da una situazione all’altra, senza un filo narrativo, ma con una logica terribilmente amara e stringente, intesa a mostrare l’equiparazione di tutto con tutto, in un mondo "globalizzato" alla rovescia, dove niente significa più niente per nessuno. E questo lo fa senza tenerci una lezione di morale, o di "politica corretta". Di chiaro, forse, c’è solo il titolo.

L’autunno potrebbe essere reale ma anche metaforico, quello dell’occidente, che sta tramontando in una beata inconcludenza, o quello della vita, la vecchiaia, ma una vecchiaia mentale, una bella età, adatta per capire tante cose e prendere le distanze da tante altre. E anche i "giardini" potrebbero essere quelli vagheggiati dagli illuministi; più che un simbolo ecologico, sembrano essere un luogo della mente, in cui si può prendere la distanza dal mondo, dai vantaggi dell’ordine e da quelli del disordine, dalla bellezza del vecchio e dal fascino del nuovo, dalla giustizia e dall’ingiustizia.

"Il faut cultiver son jardin" era la conclusione di uno dei più famosi racconti nella letteratura occidentale, la piccola morale con cui terminavano le mille avventure e il giro del mondo di Candido. Iosseliani ci prova, a fare il giardiniere.

O forse io ho capito quello che volevo capire, perché il film non dice niente di esplicito, Iosseliani non dimostra, mostra. 
 
Giardini in autunno
cast cast & credits
 

Jardins en automne
Giardini in autunno
 

 

 

 



Il trailer del film

 


 


 





Otar Iosseliani
Otar Iosseliani
(in una scena del film)



 

 

 




 


 








 

Michel Piccoli
Michel Piccoli
(in una scena del film)
 
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