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Un Don Giovanni dai molti (troppi) volti

di Paolo Patrizi
 
Data di pubblicazione su web 02/11/2006  

Di questo Don Giovanni scaligero – il primo del "dopo Muti" e "dopo Strehler" – resteranno nella memoria alcuni momenti forti, a cominciare da una delle primissime immagini: il capovolgimento di rapporti (adombrato anche in altre letture, ma mai reso così esplicito) tra la stuprata e il suo carnefice. Donna Anna, insomma, qui non sta "tenendo forte pel braccio Don Giovanni" per riconoscerlo e smascherarlo, bensì per fargli continuare la sua piacevole violenza; e canta "Non sperar, se non m'uccidi, ch'io ti lasci fuggir mai" cavalcando il Burlador in preda a furore orgasmico.

Sono molte, d'altronde, le situazioni che la regia di Peter Mussbach capovolge, pur mantenendosi coerente rispetto al sottotesto, e talvolta anche al testo letterale, del libretto: di Leporelli intesi non come servo da commedia dell'arte, ma alter ego del suo padrone, se ne sono visti tanti; ma un Leporello di così scarsa soggezione da scagliarsi con il coltello in mano contro Don Giovanni, quando questi gli risponde "Meglio ancora!" all'idea che l'ultima sedotta possa essere la moglie del suo servitore, non s'era ancora dato. Mentre la resa dei conti tra il protagonista e la statua del Commendatore è trasformata in un vero duello, spada contro spada, riconducendo l'epilogo al modo con cui l'opera avrebbe dovuto cominciare (all'inizio il regista aveva invece fatto pugnalare il vecchio quasi a tradimento).

Sono rapidi flash d'una messinscena costruita attraverso la fisicità cantanti, e non priva d'immagini geniali: è il caso del Finale primo, con Don Giovanni ranicchiato mentre le sue vittime l'accerchiano, quasi fosse prigioniero d'un imbuto umano, salvo poi letteralmente schizzarne fuori come lava vulcanica, disperdendo gli assalitori. Altre soluzioni, invece, sono in odore di facile forzatura, da Donna Elvira che arriva in Vespa a Masetto vestito per le nozze come John Travolta nella Febbre del sabato sera (costumi, ovviamente, tutti moderni: unico aggancio alla matrice settecentesca, le spade di Don Giovanni e del Commendatore). E di scenografia non è neppure il caso di parlare: una doppia parete nera rotante, chiamata a evocare i diversi ambienti e perfino taluni oggetti (il libro in cui Leporello segna le donnesche imprese del protagonista è proprio la parete in questione).

Si tratta però d'un minimalismo che finisce per avvitarsi su se stesso, rendendo poco chiari vari meccanismi dell'intreccio e imponendo ai cantanti – data l'assenza, su quel nudo palcoscenico, di qualsivoglia punto d'appoggio – incongrue posture sdraiate e continui rotolamenti. La scarnificazione operata da Mussbach finisce così col sembrare dettata più dall'episodicità che da un progetto unitario, dall'estro di una rilettura da applicare ai singoli momenti piuttosto cha da un rigore (o un'iconoclastia, secondo i punti di vista) a trecentosessanta gradi. E quel Leporello gangster, quel Masetto trasformato in "nuovo barbaro" metropolitano, quel Don Ottavio smaccatamente omosessuale potranno anche funzionare, con beneficio d'inventario: ma sembrano uscire, di volta in volta, da un Don Giovanni diverso.

Anche per la parte musicale s'insinuano nelle orecchie bei momenti che non approdano a un risultato del tutto riuscito. Il venezuelano Gustavo Dudamel, nuovo enfant prodige del podio, mostra una già notevole maturità tecnica, con il viatico d'un gesto chiaro ed elegante cui l'orchestra risponde quasi sempre molto bene: solo in "Deh, vieni alla finestra" il suono appare stranamente greve. Ma è, la sua, una maturità che attiene solo al direttore. Il concertatore, stante la scarsa esperienza operistica (prima d'ora soltanto un Elisir d'amore), appare acerbo: nell'intaglio sbrigativo dei recitativi; nello stacco dei tempi non sempre attento ai cantanti (soprattutto la Donna Elvira della Bacelli avrebbe tratto miglior partito da una maggiore velocità); in certi squilibri sonori (troppo invasivo il volume del coro al momento dell'inabissarsi del protagonista). Per contro, alcuni dettagli strumentali appaiono curatissimi e capaci di aprire nuovi orizzonti anche allo spettatore più smaliziato: al di là delle incertezze vocali della Bacelli, la tempestosa pienezza degli archi durante l'Allegro "Ah, fuggi il traditor" sono un'esperienza d’ascolto rara.

Siamo comunque lontani – enfant prodige contro enfant prodige – dal Don Giovanni di Daniel Harding: se l'inglese sottolineava, del "dramma giocoso" mozartiano, più l'aggettivo che il sostantivo, cercando soprattutto vorticosità ritmica e snellezza di suono, il venezuelano opta per un "dramma musicale", più dilatato nei tempi, meno leggero nelle sonorità, proiettato verso presagi romantici. In attesa che la sua lettura evolva col tempo, Dudamel si situa fin d'ora in un illustre, e ormai pochissimo frequentato, solco interpretativo che trova il proprio alfa in Bruno Walter e il proprio omega in Klemperer, passando attraverso Furtwängler. In questo, la discontinuità con il Don Giovanni di Muti – o meglio: dell'ultimo Muti – non è poi così forte. Anche se forse è proprio tale pretesa discontinuità ciò che una parte del pubblico, alla "prima", non gli ha perdonato (la recita di cui si dà conto è andata in porto senza alcuna contestazione).

Carlos Alvarez è probabilmente il miglior baritono verdiano di oggi, il che, in tempi di specializzazioni, rischia di farlo apparire un mozartiano inattendibile: ma è proprio questa matrice a farne un protagonista ideale per il Don Giovanni romanticizzato di Dudamel. Introiettando – qui come nelle incarnazioni verdiane – la lezione interpretativa di Tito Gobbi (un grande che delle specializzazioni non sapeva cosa farsene), Alvarez plasma un Burlador affascinante, minaccioso e violento, di grana vocale scura ma squillante nell'ascesa all'acuto, robustissima ma abbastanza flessibile per donare morbidezza alla Serenata. E in certi passaggi sinistramente melliflui ("La povera ragazza è pazza, amici miei", "Metà di voi qua vadano") non ci fa dubitare neppure per un attimo che quella che sentiamo sia davvero la voce di Don Giovanni.

Ildebrando D'Arcangelo – peso e colore da basso cantante in felice dialettica con la taglia schiettamente baritonale di Alvarez – è un Leporello degno di tanto padrone per volume, dizione, grinta, arte del porgere. Anna Samuil, chiamata a sostituire Carmela Remigio, è stata una piacevole sorpresa: una Donna Anna di splendida presenza, timbro naturalmente nobile e linea di canto corretta, pur se capace di farsi valere meglio in "Or sai chi l’onore" che in "Non mi dir, bell'idol mio". L'emergente Francesco Meli, dopo qualche prova un po' sopravalutata, come Don Ottavio sigla la sua interpretazione migliore: una miscela tra tenore di grazia e tenore nobile, dolce senza tentazioni falsettanti, capace di un'autentica mezzavoce nella ripresa di "Dalla sua pace".

Più deboli il Masetto di Alex Esposito (cui però va dato atto di essere l'elemento del cast che ha meglio assimilato gli input registici), il Commendatore di Attila Jun – dalle sonorità cavernose, piuttosto che ultraterrene – e, soprattutto, la Zerlina di Veronica Cangemi. Della prova deludente di Monica Bacelli, ottima artista, s’è accennato: Donna Elvira è un ruolo che le sta largo (per quanto duttile la Bacelli resta comunque un mezzosoprano), né le ha giovato l'isteria sopra le righe che Mussbach, dall'inizio alla fine, ha richiesto al personaggio.  



Don Giovanni alla Scala di Milano
Dramma giocoso in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart


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