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Complice di una visione

di Giulia Tellini
  Valentina Cervi nel ruolo di Pansy Osmond in Ritratto di Signora
Data di pubblicazione su web 27/06/2006  
Roma. Hotel De Russie. 21 giugno 2006. Ore 14:30. La sera prima Valentina Cervi (classe 1976) ha letto, nella Basilica di Massenzio, consueto teatro dell'annuale Festival delle letterature, alcune pagine tratte dal libro Della bellezza scritto dalla coetanea Zadie Smith. Scelta diciannovenne da Jane Campion come interprete della figlia di John Malkovich in Portrait of a lady (1996) e da Agnés Merlet come protagonista del controverso Artemisia, Valentina Cervi è oggi – per la sue scelte interpretative controcorrente, per la sua perseveranza nel rimettersi sempre in gioco - una delle più interessanti e coraggiose giovani attrici italiane.

Se non fossi diventata attrice che cosa pensavi ti sarebbe piaciuto fare?
E' una domanda che mi hanno già fatto. Non lo so. Ho cominciato talmente tanto presto (quando andavo a scuola frequentavo già i corsi di recitazione e quando avevo 19 anni sono stata scelta da Jane Campion per fare Ritratto di signora) che il passaggio dalla vita adolescenziale e scolastica al mondo del lavoro e del cinema è praticamente avvenuto quasi senza soluzione di continuità. Non ho avuto neanche il tempo materiale di pormi domande sul lavoro dell'attore e sulla scelta di una possibile alternativa. Ho ricevuto subito una sorta di "chiamata": essere stata spinta e fatta entrare dalla porta principale facilita le cose da una parte, dall'altra crea delle difficoltà successivamente. Può capitare infatti che una persona - ritrovatasi a un certo punto senza proposte (e un attore non è mai fino in fondo responsabile o regista della propria vita lavorativa) – si chieda: ma se non avessi fatto l'attrice? Se dovessero togliermi la possibilità di esserlo ancora? O se io decidessi di non esserlo più, cosa farei? Non lo so. Probabilmente avrei lavorato nella produzione. Prima di cominciare a lavorare - quando avevo 17, 18 anni - d'estate, per guadagnarmi un po' di soldi, avevo fatto l'assistente alla regia e alla produzione. E mi divertivo molto. L'idea di dare razionalità alla vita mettendo in ordine elementi che mi coinvolgono fino a un certo punto è una mia nevrosi che sa però darmi una sorta di pace. Visto che mi piace molto organizzare le cose probabilmente avrei lavorato nella produzione e non è detto che in futuro non lo faccia. Se tu per esempio mi chiedessi: faresti mai la regista?… 

Infatti era una domanda che, appunto, volevo farti…
E' una cosa che mi chiedono. Ti direi: "chissà, un giorno…" però non sento una attrazione verso la regia quanto la sento verso la produzione. Mi piacerebbe produrre. 

Perché?
La regia richiede un senso di responsabilità molto forte. Essere il capitano della nave mi terrorizza sempre un po'. Mi piace molto essere pioniera ma vorrei che il contenitore fosse strutturato da altri.  Creare la struttura di un film ed essere il riferimento di tutte le persone che lavorano in un film mi impaurisce molto - anche se di idee ne avrei tante - mentre la produzione è una cosa che saprei fare meglio.

Hai cominciato a voler diventare attrice molto presto?

Ci provavo, cominciavo col metodo Stanislavskij. Quando ti senti sola, senti che ti manca qualcosa, provi a cercarla da qualche parte. Lì mi sembrava, quella cosa che mi mancava, di poterla riacchiappare.

Quanti anni avevi?

16, 17 anni. Facevo i seminari. Mi sembrava di riuscire a trovare un collegamento con quella cosa che mi mancava, che non trovavo. La trovavo attraverso i personaggi, attraverso lo sguardo degli altri. Essere guardata da una parte mi terrorizza e da una parte mi fa sentire meno sola. 

E' una cosa quasi terapeutica? 

E' una sfida continua. La sfida di riuscire ad essere un mezzo per comunicare alla gente qualcosa  attraverso un testo o un personaggio. E' un modo per arrivare alle persone, per poter avere una comunicazione. La cosa che mi rende più felice oggi è proprio la comunicazione. L'attore è un vaso comunicante tra la gente e un testo, un personaggio.

In una tua intervista che ho letto descrivevi il tuo incontro con Jane Campion. Sei stata scelta fra moltissime aspiranti. E sei stata scelta per la tua sensibilità che Jane Campion indovinava straordinaria.
So che è stato uno dei primi provini della mia vita ed ero piccola, ero ancora un po' incosciente. Mi dissero: c'è Jane Campion che sta cercando in tutto il mondo questo personaggio.

Era lei che faceva i provini a Roma?

Non lei, erano i suoi assistenti. Mi ricordo che dissi: "ce la posso fare". Lessi il libro di Henry James, osservai il personaggio e non mi preoccupai troppo di essere scelta o meno. Pensavo che sarebbe stato impossibile però intimamente ci provai - cosa che probabilmente non ho più fatto dopo - con la sicurezza di essere completamente quel personaggio. Andai al provino e c'erano forse 100 ragazzine. Solo in Italia. E contemporaneamente la Campion cercava in Australia, in Francia, in Inghilterra. 

E questo provino in che cosa consisteva?

In due scene del film.

 

Una era forse la scena sul limitare del giardino del collegio? Quella scena per me è la più commovente del film.

E' bellissima. Quel giorno ero talmente bloccata che non riuscivo a piangere.  Comunque è una scena molto di regia. Al cinema sei veramente nelle mani di un regista. Quando un regista è così capace anche il personaggio diventa più convincente, più emozionante.

Che scene erano? 

Queste scene – che feci davanti a una casting qualunque che mi dava le battute – erano la scena in cui confessavo a Isabelle Archer che ero sicura di poter portare mio padre nella mia direzione e poi quella – che poi è stata in parte tagliata - in cui Isabelle arriva al convento e le dico che sono stata cattiva, che mio padre ha sempre ragione e mi merito di stare lì. Erano le due scene principali. Il personaggio era descritto da Henry James come una pagina bianca che non era mai stata scritta. Quella era un'epoca in cui a diciotto anni le ragazze vogliono essere seducenti. Questo personaggio non lo era per niente. Dovevo trovare una purezza vera e ho cercato di camuffarmi. Mi sono messa un maglioncino bianco con delle maniche a palloncino, una gonnellina che mi metteva in evidenza le gambe. A me non piacciono le mie gambe, le nascondo sempre. Invece mi ero messa delle ballerine bassissime che mi davano una grande fragilità, che mi esponevano tantissimo. Almeno mi dava l'impressione che lo facessero. Feci il provino con tutta la fiducia che lei avrebbe scelto me. Tre settimane dopo ricevetti una chiamata dalla casting che mi disse: "Jane Campion viene a Roma e ha deciso di incontrare solo due ragazze. Tu sei una delle due. E vorrebbe fare un provino". Non ti dico come ci sono arrivata: non avevo dormito per tre notti, tremavo. Ero terrorizzata dal fatto che lei scoprisse che non ero abbastanza piccola, perché il mio personaggio nel film ha 15 anni all'inizio. Io ne avevo già 18, 19. A quell'età quattro anni sono tanti. Non avevo mangiato per giorni sperando di sembrare più piccola. Sono arrivata e lei mi ha accarezzato, ha fatto la scena con me. Poi è sparita. E ho pensato: non mi avrà scelto. Venti giorni dopo mi ha chiamato lei in persona. Ed io ero talmente emozionata che ho attaccato. Poi mi ha detto: "Sono felice di dirti che cominceremo questa avventura insieme ad agosto". 

Qual è, fra tutti quelli che hai interpretato, il personaggio a cui ti senti più vicina, che pensi ti rappresenti di più, nel quale pensi di aver messo più te stessa? Artemisia, per esempio?
Artemisia purtroppo o per fortuna è stata la mia Artemisia. Chissà come era Artemisia. La mia è stata una Artemisia molto istintiva. Se lei vedesse quel film, non so se si riconoscerebbe in me. Per me i personaggi li fanno molto i registi con cui lavoro. Se entro in una connessione con il regista e capisco profondamente quello che il regista vuole comunicare con una storia allora mi affeziono al progetto e mi libero di più. Sono tanti i personaggi e i film a cui sono affezionata. Il film di Jane Campion, il film Rien sur Robert, un film francese di Pascal Bonitzer del 1999 che non è mai uscito in Italia. Provincia meccanica, L'anima gemella. Mi sono divertita a girare L'anima gemella.


Valentina Cervi in Artemisia (1998)
Valentina Cervi in Artemisia (1998)



 
Quali pensi che siano stati gli incontri più determinanti nella tua vita, per il tuo lavoro? Le persone che hai incontrato che ti hanno aiutato, stimolato nella tua crescita professionale?

Tante persone. Il lavoro dell'attore va di pari passo con quello che sei. Il mio scopo è quello di cercare di essere il più tranquilla possibile, di liberarmi del bisogno di essere accettata a tutti i costi e di cercare di essere un semplice mezzo. Un mezzo unico. Le persone che mi hanno aperto delle strade sono state la mia analista, il mio amico Luca Guadagnino, grazie anche ai film che mi ha fatto vedere. Mia madre, nel bene e nel male, perché mi ha formata. Jane Campion che è stata la mia prima regista. Molti registi che ho incontrato, per esempio Stefano Mordini, il regista di Provincia meccanica. Fabrice Luchini che è l'attore francese con cui ho lavorato in Rien sur Robert. E' un attore teatrale allo stato puro: la parola per lui è l'unica cosa che conta. Quando recitavo con lui mi portava per mano attraverso il film, mi ha insegnato tante cose. E poi le persone che lavorano sul set. Mi sembra di imparare sempre tanto da tutti.

Con quale criterio scegli i personaggi da interpretare? I personaggi che interpreti sono estremamente differenti l’uno dall’altro, dai terrori e dai sensi di colpa che bloccano Pansy al programmatico e arruffato ribellismo di Silvia.

Scelgo i progetti in base alla progettualità del film. Leggo un copione e cerco di capire cosa vuole seminare. E poi lo scelgo. Non faccio troppi calcoli. Per me hanno molta importanza i registi. Essere attori significa diventare complici di una visione. Tu prima mi parlavi di mio nonno [Gino Cervi, n.d.r.]. Mio nonno probabilmente riusciva a portare molto di sé nei film che faceva. Io ancora ho paura di non farcela. Quindi voglio essere sicura che la progettualità che sta dietro al film sia importante, che il regista voglia davvero dire qualcosa o che perlomeno sia seriamente intenzionato a cercare di dire qualcosa.

 

C’è un personaggio letterario o storico che ti piacerebbe molto interpretare?

Mi piacerebbe molto interpretare Maria Barbella che è stata la prima donna condannata alla sedia elettrica alla fine dell'800. E' una storia fantastica la sua. E' interessante la storia dell'emigrazione di questa ragazzina, dall'Italia all'America. Mi piacerebbe interpretare la Signora delle camelie. Da quando ero piccola voglio interpretarla. Ero ossessionata dalla Signora delle camelie. In realtà - quando leggo un libro, vedo un film o vado a teatro - non riesco mai a immaginare me stessa in un personaggio. Secondo me l'impressione di necessità o il desiderio nascono dalle occasioni. Ma non riesco mai a proiettare me stessa in un personaggio letterario.

Credi nella non casualità degli eventi e nelle connessioni?

Credo negli altri.

Quali sono gli attori che stimi di più?

Tantissimi. La Masina, la Magnani, Jean Rochefort, Denis Levant che è un attore francese che adoro, oggi c'è questo Filippo Tini che è uno dei più bravi attori che ci sono a teatro in Italia, mi piaceva tanto Robert Michum, Isabelle Huppert, Fabrice Luchini. 
 

Valentina Cervi con Fabrice Luchini in Rien sur Robert
Valentina Cervi con Fabrice Luchini
in Rien sur Robert


 

Cosa pensi del cinema italiano di oggi?

Penso che… non penso. Quasi più niente. Aspetto, aspetto. Mi sento molto italiana. Amo il mio paese. Mi piace tantissimo lavorare in Italia. Se faccio un film in Italia è sempre più emozionante di quando lo faccio all'estero. Spero sempre di incontrare persone che mi diano l'opportunità di lavorare in Italia. Sul cinema italiano non penso niente.

Ci sono registi italiani che ami in modo particolare? 

Il maestro Olmi, Bellocchio, Tonino De Bernardi, Francesco Munzi oggi tra i giovani. Mi è sempre piaciuto Piccioni, il suo universo.

Alcuni film che hai fatto danno l’impressione che siano in gran parte basati sull’improvvisazione. E penso per esempio ai Figli di Annibale
Abatantuono improvvisa. Io non mi trovo bene improvvisando. Improvvisare non significa che un attore fa quello che gli pare. Quando si improvvisa la regola numero è mettersi dei paletti intorno. Tu sai che devi arrivare a comunicare una cosa in tre minuti, come ci arrivi dipende da te. Ma non ci puoi mettere 10, 15 minuti. L'improvvisazione un po' mi blocca. Ho bisogno di molta preparazione, di molta fiducia, di capire dove sono.  

Provincia meccanica dava l’impressione invece di essere un film molto studiato. Anche il personaggio di Silvia è molto complesso.  
Lì c'è stata una armonia fantastica. Tutti e tre - il regista, Stefano Accorsi ed io - ci siamo dedicati molto al film, abbiamo parlato molto. Ci siamo seduti per venti giorni a Ravenna e abbiamo provato, camminato, riprovato e poi buttato via tutto. Alla fine siamo arrivati sul set che in qualche modo eravamo dentro la storia. C'era una bella comunicazione fra di noi. 

Come ti avvicini a un personaggio?
Cerco di capire cosa lo muove, poi lo sento dentro. Quando l'ho capito significa che l'ho fatto mio. Cerco di non giudicarlo possibilmente, soprattutto per esempio se interpreto un personaggio non dico negativo ma che comunque si muove nel mondo in maniera un po' strana. 

Lo spettatore vedendo il presente di Silvia ha l’impressione, complici solo alcuni brevissimi dialoghi, di conoscerne anche il passato. Si vede che è le stato ricreato tutto un retroterra esistenziale. 
Per questo aspetto ha lavorato molto con noi il regista.

A Berlino il film ha avuto successo.
Abbastanza. E' stato un film amato e odiato. C'è chi l'ha odiato, detestato, l'ha trovato orrendo e chi l'ha amato tantissimo. Ma a te ci sono delle cose che non piacciono?

Per esempio Le valigie di Tulse Luper di Peter Greenaway. Come ti sei trovata a lavorare con lui?
Mi sono divertita. Era uno scherzone. In casi come questo il personaggio non si prepara neanche. Io mi sono sentita molto fortunata a lavorare con lui. Gli altri suoi film sono molto più comprensibili. Lui è un grande regista. Ha fatto dei film bellissimi. Questo è un po' strano. Sembrava che facesse apposta a non far capire niente allo spettatore. 
 

J.J. Field, Peter Greenaway e Valentina Cervi a Cannes (2003)
J.J. Field, Peter Greenaway
e Valentina Cervi a Cannes (2003)


 
Poi, in effetti, della trilogia io ho visto solo La storia di Moab che è uscita qualche giorno fa in dvd.
Praticamente io appaio solo in un paio di scene. Sono più presente nel secondo episodio. Nel primo episodio – quello che hai visto tu - il personaggio inizia solamente. Poi continua. Ricordo che arrivai a Cannes con questo film in concorso. E Greenaway tutta la mia parte l'aveva messa in un altro episodio che successivamente ha presentato a Venezia.

E’ uscito? Come si intitola?
Ce ne sono tanti. Uno si chiama Vaux to the sea. Ha girato moltissimo, poi non so come hanno montato tutto il girato. Non so che fine hanno fatto quei film.

Volevo anche chiederti – ma hai già risposto all’inizio - se hai mai pensato di passare dietro la macchina da presa. Pensavo ti sarebbe piaciuto filmare te stessa. Trovarti nello stesso tempo davanti e dietro la macchina da presa.
No, per niente. Se mai facessi un film non lo farei sicuramente con me.

Neppure una progetto che ti piacerebbe realizzare? Una storia che ti piacerebbe veder crescere?

Sì, ma non con me protagonista. Fare la regia è un altro universo, un altro mondo. Lo farei con degli attori. Vorrei concentrarmi su altri attori, non su di me.








 
 



 



Valentina Cervi
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