drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Falstaff elisabettiani

di Elisabetta Torselli
  Falstaff
Data di pubblicazione su web 29/05/2006  

Il Falstaff del sessantanovesimo Maggio Musicale Fiorentino proponeva per l'estremo capolavoro verdiano un'ambientazione nell'Inghilterra del presente, o meglio del passato prossimo. La cosa è stata resa nota come sempre ben prima della prima, suscitando prevedibili e preventivi rimpianti per la mancanza di "costumi elisabettiani", ed ha fatto sì che a teatro, vedendo questo Falstaff, balzasse agli occhi una verità solitamente inosservata, diciamo pure una casualità, ma su cui, una volta notata, si può chiosare all'infinito, ritrovandosi a riflettere su determinati destini storici e teatrali nazionali: anche l'Inghilterra di oggi è un'Inghilterra elisabettiana. Regna infatti dal lontano 1952 Elisabetta II Windsor, che quanto a durata sul trono ha già battuto Elisabetta I Tudor. La prima, con il lungo braccio di ferro con Filippo II, con il saper tenere unita la nazione con le buone e con le cattive, con l'inizio delle avventure di conquista scorrazzando per i mari, è la regina di una grande potenza mondiale e coloniale al suo nascere. Elisabetta II, al contrario, è, almeno dal punto di vista imperiale (che si riassume nel regno di un'altra figura femminile importante sul trono inglese, Vittoria), l'amministratrice regale di una lunga decadenza da quel rango, cominciata invero un po' prima della sua ascesa al trono, con il distacco dell'India in seguito alla sua tenace lotta indipendentista (1947), poi di altre colonie, già visibilissima con la crisi di Suez del 1956, maturata fino al ruolo attuale di ancella di quell'ex colonia che sta dall'altra parte dell'Atlantico. Ma da un altro punto di vista, quello della cultura (letteratura, arte, teatro, musica) e della società dagli anni Cinquanta fino ad oggi, per questa Inghilterra elisabettiana per la seconda volta, forse è stata proprio la pretesa decadenza a determinare una capacità di ridefinizione e rilettura della realtà nazionale, soprattutto urbana e suburbana, dimessa e senza sogni oppure con altri miti e sogni, con attitudini varie che vanno dall'aggressività (i Giovani Arrabbiati, il rock) allo stoicismo (Beckett); oppure, chissà, una leggerezza felice, come da fardello dell'uomo bianco finalmente deposto (Beatles, la Swinging London); e l'evidenza di un paese che ha ancora molto da dire sul piano culturale e artistico - o se non altro ciò che si dice lo si dice nella sua lingua, per quando mescidata e nutrita di altri succhi ed esperienze - proprio per la situazione peculiare del postcolonialismo: il reggae divulgatosi a partire dalle periferie londinesi, Salman Rushdie, Hanif Kureishi, le scrittrici postcoloniali (come Arundhati Roy, l'autrice dello struggente Il dio delle piccole cose). L'Inghilterra di Elisabetta I ebbe Marlowe e Shakespeare e gli altri "elisabettiani", ma quella di Elisabetta II ha avuto ed ha Samuel Beckett ed Harold Pinter (irlandese peraltro, Beckett, e vissuto molto altrove; ma erano irlandesi anche Shaw, Wilde, Joyce; la fama di Beckett come autore teatrale data dal Godot a Parigi, in francese, scritto nell'anno in cui Elisabetta II diventava regina). Non so se la messinscena di questo Falstaff si muovesse in base a un tale parallelo fra quell'Inghilterra elisabettiana di Shakespeare e questa Inghilterra elisabettiana dell'ultimo mezzo secolo e passa, ma la riambientazione ci ha fatto pensare proprio in questi termini: Quicky in spolverino e cappello ad ala sollevata da Regina Madre, ma forse si vestiva così, prima della catastrofe, anche la Winnie di Giorni Felici; le vesti pastello tipicamente fashion Windsor delle dame; gli uomini in guise varie tra working class e borghesia della City, come in una pièce, appunto, di Pinter, con Bardolfo e Pistola che sembrano usciti da una messinscena recente del Guardiano; i muri in mattoni rossi, l'oste col grembiulone come in un pub odierno, e, alla fine, le fate e gli elfi punk. Perché c'è un'Albione conservatrice, quella in cui la casa Tudor che vediamo in questa messinscena, con praticello impeccabile fuori e solidi pannelli di quercia dentro, è probabilmente ancora oggi la magione ideale di un Ford e signora, e pertanto non è affatto un'incongruenza; ma l'Inghilterra è anche la patria del Punk. 

''Falstaff''
''Falstaff''

 

La datazione delle Allegre Comari di Windsor è controversa come per la maggior parte dei lavori shakespeariani. La commedia potrebbe collocarsi sia fra Enrico IV (prima e seconda parte) e Enrico V, o piuttosto seguire a quest'ultimo dei chronicle plays ispirati ai Signori della Guerra, i re e usurpatori inglesi quattrocenteschi e relative turbolenze dinastiche, ossia le tre parti di Enrico VI, Riccardo III, Enrico IV prima e seconda parte, Enrico V (una sequenza in cui l'inserimento del Riccardo II, sull'ultimo coronato dei Plantageneti, mostra i risvolti oscuri dell'ascesa di Enrico IV e della casa Lancaster). In ogni caso le Comari si collocano tra gli ultimi anni del Cinquecento e i primissimi del Seicento; giacché nell'Enrico V si fa il racconto della morte di Falstaff (lo fa la sua piccola corte stracciona, Bardolfo, Pistola, Nym, Quickly e il paggio, v. Atto II, Scene II-III), la datazione post-Enrico V presupporrebbe la "resurrezione" teatrale del personaggio.

Nell'un caso e nell'altro, la leggenda shakespeariana vuole che le Comari siano state scritte dietro una precisa sollecitazione dall'alto, perché Elisabetta I avrebbe espresso il desiderio di vedere innamorato e beffato il vecchio cavaliere pancione, un personaggio che amava per molti motivi: per gli stessi per cui lo amiamo tutti, e anche per altri, politici e, per così dire, di immagine. Nella cornice dei grandi chronicle plays, sir John Falstaff è infatti, in chiave comica, ciò che è Riccardo III in quella tragica: il simbolo della turbolenta, feudale e cavalleresca Inghilterra del Quattrocento, che può ritrovarsi ridotta a gridare "Il mio regno per un cavallo !" oppure, meno eroicamente, a inveire contro un oste. Se Riccardo è il più abile, ambizioso, machiavellico dei grandi Signori della Guerra delle Due Rose, Falstaff, un paio di generazioni prima di lui (prima delle Due Rose, in quella fase favorevole agli inglesi della Guerra dei Cent'Anni culminata ad Agincourt; ma il Falstaff storico era tutt'altro, un eretico, un lollardo), è un allegro e aristocratico predone dal bel parlare straordinariamente forbito e immaginoso, un ex guerriero  convinto del proprio diritto al bel vivere a spese altrui, il compagno di rapine e bagordi del giovane e scapestrato principe Hal, poi ripudiato dal suo regale amico quando questi, chiamato direttamente in causa da una congiura contro il padre Enrico IV, che pure lo disprezza, mette la testa a partito, sbaraglia i rivoltosi, diviene re a sua volta (Enrico IV). Falstaff muore forse per la malinconia di quel ripudio, intanto Hal-Enrico V va in Francia a difendere vittoriosamente le ragioni dinastiche inglesi nella Guerra dei Cent'Anni (si noti che il punto dinastico, chiaramente espresso in Enrico V, Atto I, Scena II, sta nella legittimità o meno dell'applicazione in Francia della legge salica che escludeva le donne dalla successione al trono, e questo doveva solleticare assai le orecchie di Elisabetta). Nella storia militare, ma anche e soprattutto nella definizione dell'identità nazionale inglese, Agincourt o Azincourt (1415) diventerà la battaglia-simbolo di due concetti della guerra: un'Inghilterra popolare e battagliera (quella a cui in Shakespeare Enrico, sotto il falso ma significativo nome di Harry Le Roy, può tastare il polso di persona, parlando con i suoi fanti, fra cui Pistola, già bravo di sir Falstaff, v. Enrico V, Atto IV, Scena I), guidata da un giovane capo animoso, simpatico e spavaldo (si ricordi la versione cinematografica di  Lawrence Olivier), vittoriosamente contrapposta all'aristocratica e altera Francia i cui campioni nelle loro pesanti armature fanno la guerra all'antica, ognuno intento alla propria singolar tenzone come nei tornei (poi, però, nella storia reale, verrà Giovanna d'Arco e ribalterà le sorti della Guerra dei Cent'Anni, rimotivando i rituali cavallereschi, regali e mistici della Francia dei Capetingi, e nello stesso tempo imponendo qualcosa di ben più radicalmente nuovo sotto il profilo storico: la nazione disperata che si unisce dietro ai vessilli di un comandante adolescente, analfabeta, donna).

''Falstaff''
''Falstaff''

 

La morale, comunque, in capo a tutta la serie dei chronicle plays, è che né l'orgogliosa, demoniaca individualità di un Riccardo III, né l'allegra vitalità rabelaisiana da scroccone e crapulone di un Falstaff hanno più posto nella nuova Inghilterra borghese, unita come nazione, straordinariamente intraprendente, ma virtuosa e sobria, ben governata, finalmente tranquilla in terra - si fa per dire: congiure di scozzesi e gesuiti, nobili e regine che ci rimettono la testa, persecuzioni di cattolici e calvinisti - e oramai lanciata nei mari, di cui Elisabetta I è il vertice e il simbolo. Ed eccolo, questo simpatico animale da rapina e da ribotte colossali, invecchiato, senza più denti né unghie, nella borghese Windsor, dove vivacchia di espedienti ma ha ancora il suo incredibile parlar forbito, cerca di tenere alto il decoro signorile mantenendo finché può i suoi bravi-famigli, crede di poter contare sul suo fascino di cavaliere per abbagliare queste comari, e si sbaglia, perché le comari sono, sì, allegre, ma anche senza grilli, oneste, alquanto puritane (leggo in questa chiave l'ironica risposta di Alice a Falstaff che l'immagina in guardinfante:  il semplice e pudico fazzolettone è quel che le conviene, v. Comari, Atto III, Scena III, che diventa, in Boito, con immagine più preziosa, "Ogni più bel gioiel mi nuoce e spregio / Il finto idolo d'or. / Mi basta un vel legato in croce, un fregio / Al cinto e in testa un fior", v. Atto II, Scena II), al punto da sentire come un'offesa da vendicare le profferte di Falstaff. Qui Shakespeare resuscita una dimensione smargiassa, di vitalità assoluta e caparbia, dell'eroe comico, che nel grande teatro d'autore era forse andata persa dai tempi della Commedia Nuova ateniese: un vecchio irriducibilmente vitale e gaudente era anche il Filocleone delle Vespe di Aristofane. Ma, al contrario di Filocleone, Falstaff è destinato alla sconfitta. Lo schema di base è chiaramente Falstaff contro Windsor,  la merry England delle comari e dei loro consorti, che, per difendere i propri beni e la propria morale, si dedica così entusiasticamente a burle anche crudeli da apparirci "una sfera dominata, sotto la vernice delle buone abitudini campagnole, dagli stessi falsi valori dell'egoismo e del possesso, del raggiro e dell'aggressività che reggevano il mondo dell'Enrico IV" (così Nemi D'Agostino nell'introdurre l'edizione delle Comari nella collana Grandi Libri Garzanti), un mondo che troverà in Falstaff il proprio capro espiatorio comico.

Da questo punto di vista potremmo dire che Falstaff come appendice comica dell'Enrico IV e dell'Enrico V rimodula a obliqua e fine critica accuratamente dissimulata l'entusiastica adesione all'ideologia nazionale così chiaramente espressa nell'epopea dell' Enrico V, e certo tutto ciò si perde in Verdi/Boito, ma, se c'è qualcosa in meno, come sempre, quando il teatro parlato diventa opera e la musica rimescola tutte le carte, c'è anche qualcosa in più. Ciò che viene espresso e valorizzato alla fine, e che in Shakespeare non c'è, è proprio il concetto che è Falstaff, e solo Falstaff, il motivo per cui questi borghesucci sono diventati arguti, si sono inventati fittizie identità, hanno fatto cose che non avrebbero fatto mai, come travestirsi da fate e da elfi e riscoprire così un po' della poesia della vita.

''Falstaff''
''Falstaff''

 

E un'altra cosa assolutamente non si perde in questo passaggio: la festa del teatro e del linguaggio, la festa del testo shakespeariano.  Si ammira sempre di più infatti, ad ogni nuovo ascolto, lo straordinario libretto di Arrigo Boito (ma forse bisognerebbe sentire il punto di vista dei cantanti e del coro, a cui Boito, come anche in Otello, prescrive l'emissione di allitterazioni vertiginose, sapide alla lettura quanto scomodissime a cantarsi). Lavorando su Shakespeare, Boito, come già in Otello, riduce drasticamente all'essenziale la vicenda (spariscono infatti i personaggi di Shallow, Slender, Evans, Page, Page jr, Nym, Peter, e altri di minor rilievo, l'Oste della Giarrettiera diviene un ruolo muto) e le stesse burle, che in Shakespeare coinvolgono personaggi e relazioni anche indipendentemente da Falstaff, focalizzando così tutto sul protagonista, alla cui tornitura perfetta sono dedicate le parti del libretto che derivano dall'Enrico IV, prime fra tutti l'arguta riflessione sull'onore (Enrico IV, Parte Prima, Atto V, Scena I), la rievocazione di quando Falstaff era uno snello giovinetto e la lista delle sue copiose consumazioni all'osteria (Enrico IV, Parte Prima, Atto II, Scena IV), la famosa descrizione del naso-lanterna di Bardolfo (Enrico IV, Parte Prima, Atto III, Scena III), persino l'epiteto, datogli in Shakespeare da Hal, di "estate di San Martino" (Enrico IV, Parte Prima, Atto I, Scena II), e un'infinità di altri e più minuti riferimenti. Il tutto è ricomposto con molta arte, arricchendo e "italianizzando" la miscela delle citazioni con Boccaccio (il distico amoroso di Fenton-Nannetta "Bocca baciata non perde ventura / Anzi rinnova come fa la luna" è lo sbarazzino motto finale della novella di Alatiel nel Decameron), con molti altri sapori di lingua antica e dantesca o quasi (alluminato, quando baciai la desiata bocca e tante altre pennellate), con agili ritmi di cobbole, il tutto ripreso in chiave scapigliata e decadente, come nel poemetto boitiano del Re Orso (ma un po' anche, con la stessa intenzione di preziosismo, nel libretto boitiano della Gioconda  per Ponchielli). Boito crea un composto drammaturgico veramente unico, fra la scioltezza della forma aperta e liberata da dramma musicale moderno, l'evocazione dei profumi ottocenteschi delle cavatine, il riproporre classiche strutture di concertati ed ensembles di sapore neo-mozartiano, intuendo in Verdi potenzialità comiche, di leggerezza e di grazia mozartiana, che certo non mancano in opere come Un ballo in maschera, ma su cui probabilmente, a quel tempo, solo un Boito, con il suo fine intuito, poteva scommettere. A Boito, oltre tutto e anzi prima di tutto, va il merito di aver intuito che il fantasma del Grande Vecchio shakespeariano a cui Verdi pensava, si può dire, da tutta la sua vita di compositore teatrale, avrebbe potuto benissimo essere non un re Lear ma un Falstaff.

''Falstaff''
''Falstaff''

 

La cifra di questo spettacolo fiorentino sta soprattutto nell'invenzione scenica, affidata a due collaboratori storici di Luca Ronconi come Margherita Palli e Carlo Maria Diappi. E' shakespeariana la divisione dello spazio in due piani o livelli, Osteria della Giarrettiera e camera di Falstaff, ad esempio, comunicanti fra loro mediante una scala di botti e botticelle. Dei costumi di Diappi si è detto, ma segnaliamo anche la felice ideazione del costume di Falstaff con chioma giallo vivo e pomelli da clown (ma quando fa ritorno a Ford/Fontana, abbigliato per l'appuntamento galante con Alice, sembra proprio un vecchio figlio dei fiori, come se ne vede tuttora qualcuno, per esempio, lungo i canali di Amsterdam). Bello è il finale, che prevede la fusione dei due ultimi quadri e la féerie concepita come un sogno di Falstaff nel suo letto. Falstaff si addormenta mentre Quickly, china su di lui come una nonna sul nipotino, mima la leggenda del Cacciatore Nero che Alice sta cantando al livello inferiore della scena; ed ecco che entrano dalle finestre dell'Osteria della Giarrettiera i rami della foresta che poi invaderà la scena (e qui i riferimenti figurativi ci sono sembrati altri, ma sempre inglesi, compresa un'iconografia shakespeariana festosamente fiabesca alla Joshua Reynolds).  "Fandonie che ai bamboli / Raccontan le nonne / Con lunghi preamboli, / Per farli dormir", e Falstaff, che è rimasto un po' bambino, non ci commuove e non ci fa sorridere mai tanto come quando, all'arrivo della falsa tregenda, si butta faccia a terra (qui, seppellisce la testa nel cuscino): "Sono le fate, chi le guarda è morto !". Ma a dire il vero questo concetto della féerie come sogno di Falstaff era già nella regìa di Willy Decker dell'ultimo Falstaff fiorentino del 1998 con Antonio Pappano sul podio. Fu una messinscena probabilmente più sbagliata di questa: la riambientazione in una stazione inglese anni Quaranta con Falstaff homeless, a scena unica, creava assai incongruenze, e  faceva sì che l'ariosa commedia verdiana sembrasse soffrire di claustrofobia, finché dai finestroni di quella stazione entravano i rami, come qui dalle finestre dell'Osteria della Giarrettiera. Nel 1998 la regìa era peraltro molto più lavorata (la féerie in particolare ce la ricordiamo perfetta), mentre qui non siamo riusciti ad individuare una qualche cifra ronconiana precisa.

Felice la direzione di Zubin Mehta che ama moltissimo quest'ultimo Verdi, ci sembra, "da sinfonista", e cioè soprattutto per i suoi valori musicali assoluti, in questo caso per la particolare e asciutta cifra timbrica e per certi sbalzi mozartiani che sanno già di Novecento neoclassico. Il direttore dal podio governava tutto con la consueta sicurezza, più che mai necessaria in quest'opera che ripropone tipiche morfologie settecentesche da "dramma giocoso", come i concertati a più voci, da tenere bene sotto controllo; e anche con diverso tratteggio, ci è sembrato, nelle due prime recite, con due diversi protagonisti, Ruggero Raimondi (alla prima) e Giorgio Surian, perché la prima si risolveva in una lettura più brillante e oggettiva, più puntuta, la seconda in una lettura più morbida e sognante, più abbandonata, forse perché un'opera è sempre un po'  work in progress e certe messe a fuoco si effettuano nel corso delle recite, forse perché la concertazione era costruita su due Falstaff così diversi: estroverso e quasi farsesco quello di Raimondi, appoggiato su una vocalità oramai inevitabilmente un po' logorata ma anche sul carisma scenico unico di questo cantante, più signorile e "classico", nei suoi risvolti sornioni, ma anche meno vitale e vibrante, quello di Surian, al debutto nel personaggio. Estroverso e simpatico il Ford di Manuel Lanza, vocalmente gagliardo, ma senza i risvolti di rigidezza e le ossessioni che pure in Ford ci sono (molto più qui che in Shakespeare, in effetti, come se Verdi e Boito volessero riproporre, in commedia ma comunque riproporre, il tema di Otello); anche troppo costruito vocalmente, a scapito della freschezza e della spontaneità, il Fenton di Danil Shtoda, piuttosto bene il Cajus di Carlo Bosi e la Meg di Laura Polverelli, davvero divertente, infine, come Quickly, la veterana Elena Zilio.






Falstaff
Commedia lirica in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama


 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013