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Una vita in scena

di Carlo Lorini
  Glauco Mauri
Data di pubblicazione su web 03/05/2006  
Sabato 25 febbraio, ore 19:30, camerino del Teatro della Pergola di Firenze. Stasera viene rappresentato Delitto e castigo, diretto ed interpretato da Glauco Mauri, attore dalla ricca carriera - durante la quale ha lavorato con Cervi, Santuccio, Enriquez, Moriconi, Cei, ed ora con Sturno - indimenticabile in La tempesta, Re Lear, Il Bugiardo.

Mi interesserebbe conoscere le fasi della sua carriera e quali sono stati, all'interno di queste fasi, gli incontri fondamentali.
Nasco a Pesaro, da una famiglia poverissima, mia madre è rimasta vedova con tre figli maschi. Dico questo non per raccontare la mia vita, ma perché ha influito sulla mia vita, anche di oggi. Ero il più piccolo e ho cominciato, non so perché, geneticamente, ad amare il teatro, la musica specialmente. C'era la guerra, quindi avevo dieci anni, undici anni e andavo al Conservatorio Rossini. Mia madre era l'infermiera di Zandonà, io ho conosciuto Zandonà, ma non pensavo al teatro. Leggevo, mi piaceva leggere. Un giorno c'era una filodrammatica parrocchiale e mi hanno chiesto: «Puoi venire a suggerire?». Ho debuttato il primo gennaio del '46, avevo quindici anni e tre mesi, e ho iniziato a suggerire. Dopo un po', il direttore della compagnia, che era per soli uomini, mi fa: «Ascolta, vieni un po' su tu». Da lì mi hanno fatto fare il protagonista de L'opera dei vagabondi.

Sono entrato nel teatro perché, lo confesso, non c'è nulla di imbarazzante, sono stato sempre grasso, ero l'ultimo a correre, e sul palcoscenico ho trovato che potevo essere tutto quello che da ragazzo non potevo creare nella vita: potevo essere giovane, bello, alto, magro. Il palcoscenico è quel luogo magico dove un semplice può fare un dittatore, un incolto può fare un poeta. Lì è cominciato il mio amore per il teatro.

Nonostante andassi bene a scuola e avessi vinto anche una borsa per andare all'università - la borsa dei Piceni si chiamava - decisi insieme a mia mamma - una donna meravigliosa, che aveva fatto solo la seconda elementare, parlava il dialetto, ma era come tutte le donne del popolo, in gamba, straordinaria, mentre i miei fratelli erano poco convinti di mandarmi all'accademia - decisi di andare all'accademia. Andai a Roma, città che non conoscevo (non ero mai salito su un tram)... ed incominciai la mia carriera. Ebbi la fortuna di avere un grande maestro, Orazio Costa, grandissimo, e Wanda Capodaglio, Sergio Tofano.

A un certo punto però il fatto di star sul palcoscenico, di sentirmi bene, di sentirmi vivo, non mi bastava più, a tal punto che se qualcuno al bar, mi diceva: «Stasera cosa fai a teatro?» io mi sentivo imbarazzato di fare l'attore. Poi invece ho capito che l'impegno di un attore non deve essere soltanto un impegno puramente estetico, puramente per apparire, deve essere qualcosa di più importante. C'è una frase di Brecht che avevo letto giovanissimo che dice «Tutte le arti contribuiscono all'arte più grande di tutte, quella del vivere...» io capii che il teatro era un po' così. Da tanti anni salgo sulla scena con la meravigliosa, gioiosa responsabilità di raccontare delle favole scritte da uomini per altri uomini, per parlare di noi; per contribuire a far uscire chi viene a teatro più ricco, non dico di verità, ma perlomeno di inquietudini, di punti interrogativi su cui riflettere. Questo è il percorso, non dico ideologico, il percorso profondo della mia vita di uomo di teatro.

Gli incontri fondamentali sono stati Orazio Costa all'inizio, fondamentale. Poi ho avuto tanti incontri... ho avuto la fortuna di nascere al teatro con i grandi attori di un tempo. Ho recitato con Randone, con Renzo Ricci, con Memo Benassi che è stato un mio grande maestro. Sono stato anche con Santuccio, con Lilla Brignone. Ho recitato con Gino Cervi, Enrico Maria Salerno, Tieri... e questa per me è stata la grande scuola, in parte dei primi anni.

La  Bisbetica domata
Glauco Mauri e Valeria Moriconi in
La bisbetica domata


L'altro grande salto è stato quando con Enriquez, la Moriconi, Emanuele Luzzati abbiamo formato la Compagnia dei Quattro. Furono tre anni favolosi perché portammo in scena il Rinoceronte di Ionesco e il pubblico italiano del grande teatro cominciò a conoscere Ionesco. Fu un successo allora sbalorditivo, anche impensato. Quelli furono tre anni clamorosi; eravamo io e Valeria, povera Valeria, insieme a Enriquez, poi si aggiunse Mario Scaccia... pensi che compagnia dove c'era Mario Scaccia, Valeria Moriconi, Glauco Mauri, Pina Cei, una koinè straordinaria! Enriquez è considerato a volte come - diciamolo pure - un regista un po', non cialtrone, cianfrocchione. Raramente ho trovato una persona così ricca di fantasia, di umanità, di cultura, anche musicale come Franco Enriquez. Franco è stato quello che m'ha dato il coraggio di affrontare le grandi parti, i grandi personaggi. Il Rinoceronte di Ionesco è stato messo in scena a Napoli; allora c'era la compagnia del Teatro stabile di Napoli e l'interprete era Marcello Moretti e io facevo Jean. Poi Marcello Moretti si ammalò, morì in maniera tragica, in poco tempo, di un male incurabile. Noi formammo la Compagnia dei Quattro e riprendemmo il Rinoceronte. Enriquez mi fa: «Adesso tu fai Bérenger». Io non lo volevo assolutamente fare, non mi sentivo pronto. Lui m'ha dato la fiducia, la carica. Con lui ho fatto personaggi grandissimi, Macbeth. Ecco, l'incontro con Enriquez è stato un incontro straordinario.

Tito Andronico
Gabriele Lavia e Glauco Mauri in Tito Andronico


Un altro è stato con Dado Trionfo, il quale ha fatto un Tito Andronico che credo sia passato nella storia del teatro. C'era un giovanissimo Gabriele Lavia, la Bracciaroli, Franca Nuti, Paolo Graziosi tutti giovani bravissimi. Generò polemiche con la censura, con la Chiesa, per cui addirittura a Verona, per delle cose sciocche, veramente sciocche, ci censurarono alcune scene. Lì per lì decidemmo: «Non facciamo lo spettacolo». Invece io con Dado Trionfo prendemmo l'idea di fare tutte quelle scene soltanto mute. Il pubblico ci fece alla fine un applauso di incoraggiamento incredibile, ma questo è un particolare. Altro incontro clamoroso è stato, una sola volta, con Giorgio Strehler, avendo fatto Santa Giovanna dei Macelli. È stato un incontro importantissimo, importantissimo. E poi l'altro incontro - ecco vado di tappa in tappa - è stato quello con il giovane, allora giovanissimo, Roberto Sturno, col quale decisi, a cinquantun anni che m'ero stufato di lavorare in certi teatri stabili. Decisi di rimboccarmi le maniche e fare compagnia. E furono anni durissimi perché non avevo niente: la cosa che mi chiamavo Mauri, poi non avevamo niente. Mi ricordo che vendemmo tutto, facemmo cambiali, io feci cambiali perché... Sturno... aveva cominciato con Valeria e con me facendo la parte che faceva Luca Ronconi nella Bisbetica domata. Questo ha dato l'impronta a tutta la parte che sto ancora vivendo, che spero ancora di poter vivere, della mia carriera. Ed è venticinque anni che noi due abbiamo formato questa compagnia, una compagnia gestita da due attori. Non abbiamo mai avuto capocomici. Vorrei fosse d'esempio per tanta gente; anch'io potrei farmi scritturare e prendere molti più soldi dai teatri stabili.

Questo, penso, sia un problema un po' per tutte le compagnie.
Certamente, non tanto per noi che siamo una compagnia con le spalle un po' robuste, ma penso ai giovani. Trovo tanti giovani di talento, perché per fortuna è passata la moda di un tempo. Il '68 è stato un anno straordinario, per carità, però si era instaurata l'idea che bastasse avere entusiasmo per fare teatro. Non bisogna avere solo entusiasmo. Il teatro è come uno strumento che va studiato, adoperato. Studiato vuol dire anche guardare alla gente, vivere in mezzo alla gente, tenere le antenne dritte per captare. Studiare vuol dire leggere libri, ascoltare musica, arricchirsi. Oggi come oggi ci sono giovani che vogliono fare il teatro, e sono anche preparati, hanno anche una grande volontà, soltanto che le compagnie saranno costrette, andando avanti, a fare spettacoli sempre con meno attori, con meno attrici, perché quando uno comincia portando una tournée costa tutto, gli alberghi, anche l'albergo di terza categoria, e dall'altra parte, i teatri, le città, che facevano sei giorni ora ne fanno cinque, quelli che ne facevano quattro ne fanno tre. Andiamo verso un periodo molto difficile.

Il suo rapporto con i testi, col testo teatrale. Può suggerirci i testi più importanti?
Credo di aver fatto più di sedici Shakespeare, ma la quantità non depone a favore della qualità, per carità. Certamente i classici. Perché si dicono classici? Perché resistono al tempo e danno possibilità di ritrovare anche quelle cose che ancora non sono state scovate. Credo che l'interprete abbia la funzione proprio di cercare, di scovare dentro. È come se senti la stessa sonata di Beethoven sonata da musicisti diversi. Le note sono quelle, ma è diversa l'interpretazione.

Autori che m'hanno colpito? Certamente Sofocle, certamente Shakespeare, certamente Beckett ha influito moltissimo su di me. Poi ho fatto anche i testi di Heiner Müller; ne ho fatte tante, tante. Però, la cosa che più mi ha segnato, devo dire, è stato Shakespeare. Credo che adesso, dato che nel teatro è stato provato tutto, bisogna fare il teatro facendo delle stranezze. Quando scelgo un testo cerco sempre una motivazione, mi chiedo perché voglio fare questo testo. Si deve necessariamente passare come un concertista, come un maestro. Un direttore d'orchestra non può dirigere sempre Beethoveen o Mozart, ma anche Stravinskji, anche a volte autori meno importanti. Cerco sempre nella ricerca dei testi quelli che possano richiamare all'oggi. Voglio dire, anche nel Bugiardo che ho fatto l'anno scorso, che era la prima volta che facevo, che la nostra compagnia faceva Goldoni - pensi che la nostra compagnia ha fatto una sola volta Pirandello, una sola volta Goldoni in venticinque anni, mai fatto Checov, un atto unico di Checov, e una sola volta Molière, non è che poi siamo alla ricerca dei soliti testi - anche nel testo di Goldoni abbiamo cercato, oltre che il divertimento, l'allegria, di affrontare anche un discorso di carattere, di struttura teatrale, di fare un Goldoni molto ironico. Avevo dato il valore alla bugia, alla fine c'era un risvolto abbastanza drammatico che colpiva la gente: cerchiamo sempre di dare ai nostri spettacoli un minimo di profondità.

Ricordo di aver visto Re Lear e penso che la scelta scenografica si riallacci a quanto diceva prima, ossia alla ricerca di maggiore concretezza.
Esatto. Non so se hai visto anche questo spettacolo; non ho cercato, non cerco mai di fare una ricostruzione archeologica della scena. Anche la scena deve esprimere il perché di una cosa. Per esempio questa cosa labirintica: non ho voluto ricreare ad esempio la fine ottocento russa, nei costumi sì, ma la scena deve essere una scena che sia didascalica, che faccia capire il logorio, la via crucis mentale, l'angoscia mentale di un personaggio che ha commesso un delitto e che cerca di capire perché l'ha commesso. È una scena innanzitutto di grande aiuto alla parola. Io credo che sia la più gestuale. Amo il teatro di parola, amo il teatro in cui la parola è più protagonista della gestualità, intesa scenograficamente. Ed è una scena in cui si dice «guarda che questa è una storia di ieri, di oggi e purtroppo sarà anche una storia di domani». 

L'avvicinamento coi testi: quando prendo un testo cerco di leggere tutta la saggistica, cerco... e poi dopo me ne faccio un'idea mia. Però non affronto mai con leggerezza, cioè, faccio degli errori, chi è che non li fa - poi errori, in teatro non c'è mai errore, si hanno o cose che funzionano o cose che non funzionano; cosa vuol dire un errore in teatro? quello che è errore per te non è errore per me e viceversa - ma, cerco sempre di non fare le cose a caso. Io cerco sempre col bisturi della razionalità di analizzare i testi, analizzare l'autore, perché è stato scritto e che cosa, oggi, quel testo rappresenta per me. Poi è chiaro, si va sulla scena, si comincia a provare e insorgono delle intuizioni che tu non avevi pensato. La razionalità, due più due fa quattro, quattro più quattro fa otto, otto più otto fa sedici, sedici più sedici, ma quello che viene dopo è un campo di papaveri rossi oppure un cielo stellato. È quello là il fascino del teatro. Sulla razionalità si innesta un fatto che diventa un fatto di poesia. Accade rarissimamente, almeno per me, ma io cerco di farlo accadere più spesso possibile.

Ultime due domande. Come scegliete il testo da portare in scena? È un momento improvviso o c' è una ricerca...
No, no, no, no. La cosa improvvisa è stata Variazioni enigmatiche che abbiamo fatto... perché eravamo alla ricerca di un testo - dopo Re Lear, dopo Il Rinoceronte, in cui eravamo diciotto persone, sette tecnici - un pochettino più con una scena fissa. Proprio per un fatto economico, perché una compagnia privata è una compagnia privata. Non lo riuscivamo a trovare. Improvvisamente uno mi dice «senti c'è un testo, pubblicato... ». Un po' da baci Perugina, noi lo abbiamo reso molto più "Strindberg". L'ho letto e mi ricordo che alle quattro del mattino telefonai a Roberto che era in un altro albergo a Milano dove ci trovavamo e dico «Roberto, ho trovato il testo per il prossimo anno». Ero convinto che avrebbe funzionato. Ecco, questa è stata una cosa improvvisa, se no, no. Attorno a questo qui [Delitto e castigo] ci sto dietro da anni.

L'ultima. Lei ha detto «Il teatro, valore alla parola». Ha mai pensato di portare in scena Marlowe?
Sì, beh, accidenti. Il mio sogno è quello di portare in scena Tamerlano, ma come si fa? Tamerlano è un testo che a leggerlo è bellissimo, ma il suo fascino è la ripetitività delle situazioni, che diventa una cosa sconvolgente. Con la Compagnia dei Quattro abbiamo fatto Edoardo II di Marlowe/Brecht. Marlowe è un grandissimo, l'Ebreo di Malta non lo puoi fare perché ti uccidono, un testo bellissimo, un testo ironico ma adesso non si può fare, e Il Faust, noi abbiamo fatto quello di Goethe che è più bello, ma Marlowe è un grande, un grande.

 
 

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