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Toronto loves Opera.
La Norma di Bellini alla Canadian Opera Company


di Gianni Cicali
  Norma, June Anderson
Data di pubblicazione su web 24/04/2006  
Per chi non ha mai assistito alla messinscena di un’opera italiana in una grande città del Nordamerica, la prima impressione è di sorpresa, quasi sbigottimento. Infatti l’enorme Hummingbird Centre di Toronto (teatro capace di più di 2000 spettatori) era assolutamente gremito in ogni ordine di posti per la prima del 30 marzo scorso della Norma di Vincenzo Bellini, che non ha deluso il pubblico.

L’opera, anzi l’andare all’opera, specialmente se italiana, è un evento molto popolare, sentito e particolarmente atteso dai melomani di questa grande, educata, ricca metropoli canadese, dove le lingue accreditate sono quasi 200. L’opera italiana, in tale milieu eteroculturale e plurilinguistico, può rappresentare uno spettacolo non solo ‘prestigioso’ ma anche unificante. A differenza del repertorio wagneriano (che può ancora suscitare controversi sentimenti), di quello francese (tranne varie eccezioni, meno ‘popolare’, oggi), ed escludendo le divine opere mozartiane (e gluckiane), il teatro lirico italiano, pur nella sua storica complessità (che da Monteverdi si reincarna nelle ‘forme’ dodecafoniche novecentesche), si offre come musicalmente più spettacolare e meno defatigante delle storie dell’Edda messe in musica (non ce ne vogliano i bayreuthiani, patria del moderno spettacolo teatrale).


Attilla Fekete (Pollione) e Marianna Kuilkova (Adalgisa)
Attilla Fekete (Pollione) e Marianna Kuilkova (Adalgisa).

Assoggettati ancora alla dittatura degli interpreti, obbligati a fare i conti con il successo o l’insuccesso (a volte entrambi effimeri), i compositori italiani del passato, lungi dal ricercare l’appoggio di un sovrano in bilico tra sogno e realtà, sapevano come far divertire il pubblico e come sopravvivere ad impresari e cantanti. Tutto questo pur seguendo la relativa monotonia di una struttura operistica che prevedeva, secondo le convenienze (cioè quanto spettava in termini di numero di scene e arie alle star come la primo soprano o prima donna assoluta; il primo tenore; l’altra prima donna), una rigida struttura che solo nel Novecento inizierà a sgretolarsi definitivamente. Le convenienze, spesso ridicolizzate anche nella letteratura coeva, hanno lasciato importantissima traccia di sé nei contratti dei divi di Hollywood, ad esempio, dove può essere specificato (ma nel cinema accade da anni, da anni lontani però vicini a un sistema dei ruoli teatrali) anche il numero di primi piani in cui l'attore-attrice dovrà comparire.

Vincenzo Bellini e Felice Romani (‘fedele’ librettista fin dai tempi de Il Pirata) quando scrissero Norma non erano geni romantici che creavano ‘rapiti’ dall’ispirazione. Il compositore siciliano e il librettista genovese avevano a che fare con le esigenze di Giuditta Pasta, una delle prime donne più pagate e rinomate del tempo (una soprano); con quelle del tenore Domenico Donzelli, per cui Rossini scrisse il ruolo maschile principale di Torvaldo e Dorliska nel 1815. Ma c’era anche la ‘non’ prima donna assoluta, pure lei con le proprie convenienze: Giulia Grisi, soprano che cantava insieme alla sua maestra Giuditta Pasta. Stimata da Rossini, la Grisi ebbe in seguito una brillante carriera internazionale. Tre stelle, tre parti (Norma-Pasta, Pollione-Donzelli, Adalgisa-Grisi). Due soprani e un tenore che dovevano avere il giusto risalto nell’economia dello spettacolo, insieme al coro (il ‘nuovo’, grande protagonista dell’opera ottocentesca) in una posizione di supporter e protagonista al tempo stesso. E non solo. Se si pensa alla prima alla Scala e all'Ottocento operistico in genere, dobbiamo vedere i grandi cori e le grandi orchestre come fenomeni di un'importante sistema protindustriale della produzione dello spettacolo. Quel complesso meccanismo artistico e gestionale che coinvolgeva teatri, accademie (soprattutto in Italia), impresari, cantanti, musicisti ecc., ma anche ballerini ed editori, macchinisti e ristoratori, e che fu elogiato dal ministro Cavour come voce importante e 'benemerita' dell'economia europea.

June Anderson e Zdeněk Plech (Oreveso)
June Anderson e Zdeněk Plech (Oroveso)
 
Quando l’opera debuttò alla Scala il 26 dicembre 1831 tutto il complicato meccanismo delle convenienze doveva essere soddisfatto (l’insuccesso della prima si cambiò subito in trionfo nelle repliche e nelle riprese europee). Come soddisfatte dovevano essere e l’invenzione musicale, e quella ‘romanzesca’. Bellini, coadiuvato da Romani, scrisse il capolavoro che tutti conosciamo, e dette la conveniente possibilità alla prima donna assoluta Giuditta Pasta di distinguersi subito nel primo atto, affidando a lei e al coro la celebre "Casta Diva", che di quest’opera rimane la parte per il tutto, l'aurea ma popolare sineddoche.

La storia è nota. Nelle foreste sacre della Gallia occupata dai romani, la sacerdotessa Norma s’innamora, illecitamente e segretamente, di un ufficiale romano (Pollione) dal quale ha due figli. Pollione però non è più innamorato di Norma ma della giovane sacerdotessa Adalgisa. Questa, scoperto l’amore di Norma rinuncia al suo. Ma la chiamata alla rivolta da parte dei Druidi innesca una catastrofe: Pollione viene catturato per essere offerto agli dèi. Norma tenta di salvarlo in cambio del suo amore. Pollione rifiuta. Norma decide di sacrificarsi, dopo aver affidato i figli al padre, per risparmiare l’ingrato amante che, alla fine, commosso dal gesto della sacerdotessa, decide di seguirla nella morte.

La trama fu tratta da Romani da un (improbabile) ‘drammone’ francese di Alexandre Soumet: Norma ou L’infanticide. I due artisti andavano proprio alla ricerca di un soggetto che ben si adattasse alle capacità della Pasta. L'idea artistica nacque, perciò, a partire dall'interprete non dall'ispirazione 'genialmente romantica'; nacque in un contesto estremamente pragmatico di cui l'arte era solo una delle componenti, sebbene fondamentale e distintiva, del processo produttivo. E’ abbastanza singolare che due delle maggiori opere italiane del secolo, Norma e Traviata (Venezia, La Fenice, 1853, 22 anni dopo Norma), siano entrambe tratte da due (diversissimi) soggetti francesi, l’uno storico-magico (e tipicamente romantico), l’altro stranamente, quasi sfacciatamente contemporaneo. Tutto il teatro italiano (ma in parte anche quello europeo) sono stati debitori della ‘fabbrica dei soggetti’ che era Parigi. Un fiume di storie, per l’opera e il teatro (o sfruttate da entrambi), ha invaso il mercato drammaturgico italiano per anni. Un fenomeno variamente attribuibile a fattori diversi: mercato, Zeitgeist storico-artistico, convenienze gestionali di impresari...

Inoltre non dobbiamo dimenticare la precedente esperienza di Felice Romani proprio con una Medea (Medea in Corinto, musiche di Giovanni Simone Mayr) andata in scena nel 1813 all'importante San Carlo di Napoli. Fu il primo libretto totalmente 'originale' di Romani.  Il soggetto era stato portato alla notorietà da Luigi Cherubini. Romani prese, in quell'occasione napoletana, il soggetto reso popolare dal compositore fiorentino... per di più a Parigi con Médée (libretto da Euripide di François-Benoit Hoffmann). 

Andata in scena al teatro Feydeau di Parigi nel 1797, l'opera di Cherubini (Opéra-comique in tre atti, e, quindi, con parti recitate e parti cantate) vale anche la pena di essere ricordata per un leggendario allestimento fiorentino del Maggio Musicale del 1953 (per i buoni auspici di Vittorio Gui e di Siciliani). Citiamo dal Dizionario dell'Opera Baldini & Castoldi: "Dopo una fugace apparizione alla Scala (1909), l’opera fu infatti riallestita a Firenze per merito di Vittorio Gui e Francesco Siciliani in occasione del XVI Maggio musicale fiorentino (1953), con la direzione dello stesso Gui e la regia di André Barsacq: oltre alla Callas (che nell’occasione conquistò uno dei suoi ruoli più celebri-Medée, ndr), nel cast figuravano Fedora Barbieri come Néris, Gabriella Tucci come Glauce (così è chiamata Dircé nella versione italiana di Carlo Zangarini) e Mario Petri come Creonte (r.m.)".

Proprio per la presenza di Felice Romani - che si cimentò con la celebre Medée parigina -, mette in evidenza, per la scelta dell'archetipo francese con il suo finale 'à la Médée', una vena drammaturgica che di francese non ha solo un'esteriorità ma direi, nel caso emblematico di Romani, una tradizione dalle molteplici sfumature.

La particolarità ruolistica del personaggio femminile principale, sia in Medée che in Norma, cioè un ruolo da prima donna primo soprano rendono molto interessante la filiera che da Cherubini-Medée-'Euripide' passa a Bellini-Norma-Romani per mediazioni francesi che s'intersecano con la crezione, e direi lo statuto 'internazionale', di un primo ruolo (prima donna, primo soprano)... in cerca dei suoi personaggi. Gli esiti callasiani confermano la filiera genetica ruolistico-drammaturgica oltre che musicale, connessa non solo con l'opera francese (ma di Cherubini), ma con un intero sistema produttivo e artistico liberamente e rapidamente circolante come merce nei 'bauli' di cantanti, impresari, poeti e di molte altre categorie. In poche parole: un mercato artistico.

Cambiato il finale, 'degno' di Medea (soggetto, appunto, con interessanti 'traduzioni-tradizioni' francesi), dell’originale, Romani fornì la materia a Bellini, con il quale lavorava di concerto. Giuditta Pasta era stata la protagonista della Sonnambula del musicista catanese l’anno prima di  Norma, capolavoro belliniano. Un Bellini sempre più romantico con le sue “melodie lunghe, lunghe, lunghe” come le definì Giuseppe Verdi. I grandi archi melodici, poi imitati da Donizetti, costituiscono uno degli stilemi e uno dei vertici dell’arte dell’autore de Il Pirata. Una tecnica compositiva, un’invenzione artistica che non avevano pari all’epoca. 

'Guardando' Norma riscontriamo un duplice effetto: da un lato osserviamo l’ossatura dei ruoli e delle convenienze, con i cantanti che si susseguono, a volte insieme al coro, nelle loro arie, nei loro recitativi, nei loro duetti ecc. all'interno di una struttura dalle sequenze attese e in parte prevedibili, ma proprio per questo efficace strumento di paragone in mano al pubblico per valutare le performances degli interpreti.

Dall’altro lato, Bellini riesce a legare questa struttura ruolistica in una certa misura ‘paratattica’ e slegata con una eccezionale legatura musicale generale rappresentata dalle sue melodie “lunghe lunghe”, per dirla con Verdi. Un’innovazione artistica straordinaria all'interno di un’opera che era ed è qualcosa di più del belcantismo e i cui 'timidi leitmotiven' risultano meno invadenti, oppressivi e monomaniacali di quelli wagneriani. Sono solo alcuni piccoli 'temi' che riecheggiano qua e là, ora nell’orchestra, ora nella parte di un singolo strumento e sono soprattutto legati alla "Casta Diva" e, dunque, alla parte della protagonista.

Opera rappresentatissima, marchiata in eterno dall’interpretazione della Callas (imbarazzante termine di paragone per molte cantanti che sostennero e sostengono il ruolo della sacerdotessa d’Irminsul), il capolavoro belliniano non è solo un sicuro appeal per un teatro, ma anche una piccola sfida per gli allestitori. Nel caso della Canadian Opera Company possiamo dire che il successo è stato felice e pieno.

La regia, che riprendeva un allestimento di qualche anno fa, è stata affidata a François Racine, il quale ha immerso i due atti dell’azione in una foresta spettrale di tronchi d'alberi mozzati, circondata da affascinanti quinte fatte di legname. Giochi d’ombre e chiaroscuri facevano tornare alla memoria certe incisioni  in bianco e nero degli anni Sessanta (ma belle le tonalità di rosso di certe luci). Una scenografia (di Allen Moyer) che non sommergeva i cantanti e il coro, ma che otteneva il giusto grado di funzionalità 'estetica'. Nessuna stranezza eccessiva (Deo gratias!), ma nemmeno cascami tardoromantici.

Ma la vera sorpresa per chi assiste per la prima volta a un’esecuzione della Canadian Opera Company è proprio l’ensemble stesso. L’orchestra, diretta da David T. Heusel, si è dimostrata di alto livello internazionale. Un’esecuzione accurata, una notevolissima qualità di suono, una rimarchevole unità esecutiva, un generale senso di solido nitore. Un’eccellente orchestra di cui tutta Toronto, infatti, va piuttosto orgogliosa. Non da meno è stato il coro, ai livelli di quello del Regio di Parma. Da dire che allo Hammingbird Centre coro, cantanti e orchestra sono messi a dura prova dalla grandezza del teatro (che fa apparire il San Carlo di Napoli una bomboniera dall’acustica perfetta). L’acustica pare 'relativamente' discreta, favorita da un arco scenico enorme ed estremamente strombato, oltre che dai rivestimenti in legno che coprono tutto il teatro. 

Forse l'ampiezza della sala non aiuta i momenti più intimi di una partitura, ma June Anderson, scritturata all’ultimo istante come Norma, ha dato una bellissima prova di sé in questo difficile ruolo. Il momento più atteso e immediatamente consumato (è quasi all’inizio del primo atto), la "Casta Diva", è ‘arrivato’ forse troppo lento. C’è chi dice che è una preghiera che va eseguita lentamente altrimenti potrebbe sembrare Rossini e non Bellini. Forse. In questo caso, il tempo scelto da Heusel è stato fin troppo solenne, a nostro parere. La freschezza perduta, solo in parte, per ragioni anagrafiche, dalla Anderson, non era sensibilmente avvertibile perché ammirabilmente compensata non solo dal mestiere, ma direi anche dalle capacità interpretative. La Anderson ha saputo dare alla sua Norma forza e struggimento, passione e compassione.

L’hanno affiancata un ottimo Pollione (Attila Feteke, ungherese), una brava Adalgisa (Marianna Kulikova, americana di nascita ukraina), un bravo Flavio (Peter Barret, canadese) e un giusto Oroveso (Zdenek Pleck, rep. Ceca). Un cast con una notevole presenza della scuola dell’Est europeo, congiunta alla scuola americana (non dobbiamo dimenticare la brava Clotilde, Yannick-Muriel Noah, canadese originaria del Madagascar). 

Tutti artisti, per prima la Anderson, ma anche gli altri, capaci di prove tecnicamente eccellenti anche se, a volte, non sembrava emergere (Anderson a parte) un valore musicale di maggior respiro che prescindesse la solidissima tecnica performativa, per altro più che benvenuta, per allargarsi a un più intenso 'temperamento' interpretativo.

Ma quello che non solo non ci ha deluso, ma ci ha addirittura emozionati è la Canadian Opera Company come realtà operistica di qualità veramente in linea con la sua reputazione internazionale. Ma soprattutto non ci hanno deluso le due anime importanti di questa realtà: l’orchestra e il coro, che ci piace elogiare nuovamente.

Concludiamo annunciando che lo Hammingbird Centre verrà messo parzialmente ‘a riposo’ perché in occasione della nuova stagione operistica 2006-2007 la Canadian Opera Company avrà un nuovo, modernissimo teatro: The Four Seasons Centre for the Performing Arts. Modernissimo e al tempo stesso antico se è vero che la sala s’ispirerà alla tipica struttura all’italiana con palchetti laterali (così appare nella laconicità delle piante online). 

Il nuovo Centre sarà inaugurato con Wagner (giugno 2006), ma la stagione ufficiale inizierà ad ottobre 2006 all’insegna di Mozart e Da Ponte: Così fan tutte, difficile ma ottima scelta... ça va sans dire. Il cartellone 2006-7 prevede anche due Verdi (Luisa Miller e Traviata), uno Strauss (Elektra), un Gounod (Faust) e, dulcis in fundo, la bellissima e universalmente riscoperta Lady Macbeth of Mtsensk di Shostakovich. Un magnifico e 'internazionale' (come Toronto) cartellone inaugurale per un nuovo teatro lirico.

Rispetto a certi enti lirici nostrali, cioè italiani, la situazione del Four Seasons Centre di Toronto è ben diversa. Oltre 150 milioni di dollari canadesi spesi finora per la nuova sala (86% del costo totale, previsto in $ 181 milioni) provengono da donazioni private. Se il fund rainsing proseguirà con lo stesso successo, la Canadian Opera Company coprirà la cifra complessiva  attraverso i vari donors e sponsors. Non possiamo che restare ammirati da tanta efficienza, qualità, e, a nostro avviso, etica.

Nonostante ascoltassimo Bellini e la sua Norma non abbiamo sentito nostalgia di alcuni teatri-enti lirici italiani, così poco legati ancora a un regime di efficienza e trasparenza. Infine, è interessante notare che, nonostante siano 800.000 i residenti italiani a Toronto, la nostra comunità non è largamente rappresentata nella Canadian Opera Company. Un vero, e immaginiamo casuale, peccato.



Lettera da Toronto: Norma
Opera in due atti


cast cast & credits
 



 

June Anderon Norma
June Anderson: Norma
 
 

Yannick-Muriel Noah - Clotilde, June Anderson
Yannick-Muriel Noah (Clotilde), June Anderson

Canadian Opera Company's production of Norma, 2006. 
Photographer:
Michael Cooper

 
Canadian Opera Company
 
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