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Dignità e sobrietà dell'Oriente mozartiano

di Giovanni Fornaro
  Il ratto dal serraglio
Data di pubblicazione su web 04/04/2006  
Un interessante convegno tenutosi a Bari, presso Casa Piccinni, negli stessi giorni delle rappresentazioni di questo nuovo allestimento – e nuova produzione musicale della Fondazione  Petruzzelli – del Singspiel Die Etnführung aus dem Serail, ha fatto il punto sui rapporti tra musica europea e mondo ottomano, soffermandosi in particolare – ma non esclusivamente – sui riferimenti alle fanfare delle bande militari dei Giannizzeri, di cui si appropriò la musica colta europea ai primi del XVIII secolo, in particolare grazie ai suoni “esotizzanti” prodotti da triangolo, grancassa e oboe turco (la zurnā). L’impatto sonoro che questi complessi musicali – alla loro costituzione, nel 1326, erano composti da giovani prigionieri cristiani convertiti al Profeta – producevano sugli eserciti occidentali attivava un tale terrore, essendo sviluppato da ben cinquantaquattro suonatori suddivisi in sei gruppi di nove, da obbligare ben presto gli strateghi d’Occidente ad una risposta acustico-militare adeguata (vedi l’introduzione di tamburi e oboi negli eserciti di Luigi XIV), fino all’adozione dello stesso strumentario ottomano nelle bande militari e poi, per concessione all’esotismo imperante nel Settecento, all’introduzione nella musica d’arte delle cosiddette “turcherie” (un termine che, marcando implicitamente un dislivello culturale, oggi non avremmo difficoltà a definire politically uncorrect).


Désirée Rancatore (Konstanze) e Mark Milhofer (Belmonte)
Désirée Rancatore (Konstanze) e Mark Milhofer (Belmonte)


Pur non essendo la prima opera lirica a contenere riferimenti armonici, melodici e, soprattutto, ritmici alla musica delle Bande dei Giannizzeri – basterà qui ricordare, tra le molte, La  schiava liberata (1768) del campano Niccolò Jommelli e Iphigénie en Tauride di Gluck (1779) – certamente Die Entführung aus dem Serail (1782) può essere considerata la più famosa, per la bellezza della musica di Mozart e per l’ambientazione nel vero e proprio serraglio turco del Pascià Selim, enclave in cui si dipana tutta la vicenda: la liberazione di due schiave europee per mano dei loro spasimanti.

In una prospettiva contemporanea, appare evidente come l’allestimento di un’opera - pur scritta nel Settecento  - sui difficili rapporti tra Vicino Oriente e Occidente, non possa oggi non tener conto di quanto la cronaca quotidianamente ci racconta: per questo motivo la consapevole lettura del regista Cesare Lievi delinea un impero ottomano che, se da un lato si presenta come un mondo inflessibile e militarizzato, con guardie armate e spazi solcati dai periodici giri di ronda, dall’altro presenta il lato più umano e, direi, dignitosamente orgoglioso del carattere musulmano, denotato dalla clemenza finale in cui si scioglie l’opprimente e segregante amore non corrisposto del Bassa Selim (un introspettivo e notevolissimo Hans Dieter Jendreyko, vero protagonista della scena finale, intrisa di umana pietas).


Désirée Rancatore (Konstanze) e Hans Dieter Jendreyko (Selim)
Désirée Rancatore (Konstanze) e Hans Dieter Jendreyko (Selim)


Dal punto di vista visuale, questo Ratto dal Serraglio assume un aspetto dichiaratamente grafico: l’esterno e poi l’interno del cortile del palazzo del Bassa (scene di Joseph Frommwieser) presentano linee semplici, nel loro biancore che ricorda i muri a calce comuni a tanto meridione mediterraneo, funzionali alle luci di Luigi Saccomandi che, a loro volta, tagliano la scena aprendo spazi virtuali geometrici, dai cromatismi forti (bellissimi blu, verdi, gialli). Verrebbe da tirare in ballo analoghi grafismi creati dalla matita di Hugo Pratt (in particolare certe storie mediorientali di Corto Maltese): in questi vuoti ambienti metafisici, continuamente ricreati dal light design, si muovono appunto personaggi dall’iconografia stereotipata (i soldati, il popolo, il guardiano della villa), che sembrano uscire dal film Casablanca persino nei costumi, come il lucido impermeabile indossato in finale da Konstanze (una brava anche se non troppo misurata Désiré Rancatore), o la mise da Indiana Jones del protagonista Belmonte (Mark Milhofer). La costumista Marina Luxardo ha anch’essa operato una scelta cromatica, in particolare vestendo i musulmani con abiti basati sullo stesso colore (verde chiaro-verde scuro, ad esempio), in ciò distinguendoli dagli occidentali.

Che dire della musica? È Mozart, ovviamente, cioè splendore, bellezza, guizzo, delicatezza, intelligenza, con parca aggiunta delle turcherie cui si accennava prima e una performance direttoriale (Ottavio Dantone) e orchestrale (la residente Orchestra della Provincia di Bari) che non fa gridare al miracolo. Fra i cantanti, oltre ai già citati, ben si è distinto Manfred Hemm, nel turpe e difficile ruolo del guardiano, nonché Silvia Colombini (Blonde, cameriera di Konstanze) e Mario Alves (Pedrillo, servitore di Belmonte). Un po’ ridotto, ma come sempre eseguito con attenzione ed efficacia, il ruolo del Coro l’Opera, diretto da Elio Orciuolo.

Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio)
singspiel in tre atti di Wolfgang Amadeus Mozart


cast cast & credits




 


 
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