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Il mestiere di recitare

di Giulia Tellini
  Pino Micol
Data di pubblicazione su web 15/03/2006  
Venerdì 17 febbraio 2006, ore 20, Camerino del Teatro della Pergola. Sta per andare in scena il Don Chisciotte diretto da Maurizio Scaparro e interpretato da Pino Micol, "attore classico sperimentale" – come ama definirsi - che ha lavorato con registi come Luca Ronconi, Luigi Squarzina, Massimo Castri e soprattutto Maurizio Scaparro. Indimenticabile in Amleto,  Cyrano, Galileo, Edipo e in molti altri personaggi.


Può dirmi qualcosa a proposito della sua formazione?
Ho cominciato a vedere il teatro quando ho cominciato a farlo per cui non l'ho molto desiderato prima di farlo o per lo meno desideravo una cosa che non sapevo bene cosa fosse. Sono nato a Bari, sono stato lì fino ai ventidue anni, vale a dire finchè non mi sono laureato; in giurisprudenza. Poi sono andato a Milano attratto dal faro di Strehler per frequentare la sua Scuola, la Scuola del Piccolo. Non ero mai stato a teatro. Qualche volta avevo fatto del teatro universitario ma più per gioco, perché le persone che partecipavano a questa sorta di gioco erano molto simpatiche. Non mi piaceva passare il tempo nei bar e preferivo stare con loro a parlare di teatro. In seguito il discorso, casualmente, si è un po' approfondito: seguivamo sulle cronache dei giornali (allora i giornali si occupavano molto di teatro, non come adesso che non se ne occupano più) quali erano gli allestimenti di Strehler, ci interessava molto e abbiamo tentato di mettere in scena L'eccezione alla regola e altri testi. Erano gli spettacoli che faceva Strehler e noi li rifacevamo. Era poco più che un gioco. Si vede che quel gioco mi è piaciuto. Ma quegli spettacoli in realtà non li avevo mai visti. Non avevo idea di che cosa fossero, di quale fosse la loro vera, autentica consistenza. C'era un amico che si era messo in testa di voler fare l'attore.  Si procurò una sorta di provino al Piccolo Teatro, mi chiese di accompagnarlo, andai a Milano e vissi, sebbene molto marginalmente, questa atmosfera. Milano era bellissima negli anni Sessanta,  era una città incantevole di cui sono rimasto innamorato per tanti anni. Mi dissi: «ma perché non provo anch'io?».

 

Edipo di Renzo Rosso
Edipo di Renzo Rosso


 

Gli unici attori che vedevo erano quelli che si cominciavano a vedere in televisione (allora si faceva il teatro in televisione) e riuscivo a vedere quanti erano bravi e quanti no. E mentre li vedevo pensavo: «secondo me, sono più bravo di loro». Era una cosa piuttosto infantile. Alcuni li ammiravo molto, altri capivo che non erano bravi: «se facessi questo - chiudevo gli occhi - lo farei meglio». E così, fatalmente, è nata questa cosa: sono andato a Milano, mi sono preparato con una amica molto brava, un po' più grande di me, che se fosse diventata attrice avrebbe fatto una meravigliosa carriera, abbiamo fatto il concorso di ammissione alla scuola del Piccolo Teatro e mi hanno preso, con molto entusiasmo. Ricordo le prime parole di Grassi che mi proiettarono sicuramente nel futuro: ero prossimo alla laurea, mi mancava solo un esame in Procedura Penale e avevo la tesi già in corso, per cui ormai era fatta. La fama di Paolo Grassi era immensa e tutt'ora è il più grande uomo di teatro che sia mai esistito. Se vogliamo trovare oggi una persona che si avvicini a Paolo Grassi, si può fare soltanto il nome di Maurizio Scaparro. Credo che abbia le sue stesse capacità oltre all'intuito artistico come regista. Grassi non era regista, ma aveva la straordinaria capacità di affrontare il teatro, farlo funzionale, saperlo far parlare, saperlo organizzare. Grassi, quando mi accettarono nella scuola, mi disse: «lei è un talento naturale, non lo sprechi». Non capii esattamente cosa volesse dire, però avevo capito «talento naturale»: non vedevo come i talenti potessero essere anche artificiali. Voleva dire che ogni tanto si nasce con un talento già evidente, non da scoprire in modo rabdomantico. Allora mi entusiasmai. Non rinunciai tuttavia alla laurea: nell'intervallo fra un anno e l'altro tornai a Bari per laurearmi, mi laureai e poi andai a festeggiare a Milano. Cominciava il secondo anno di scuola e andai a festeggiare la mia laurea con i miei colleghi futuri attori.

Quali considera i suoi maestri?
I maestri… non lo so. Io ho molto guardato, molto ascoltato. Chi erano i maestri? Innanzi tutto io credo che il mio vero maestro sia stato colui che mi ha dato la grande spinta per fare l'attore, e perciò (dato che poi tecnicamente si impara dopo, si impara frequentando il palcoscenico) Paolo Grassi, indubbiamente. Capivo dal sul modo di essere così severo, così burbero che aveva una grandissima ammirazione per me. Ammirazione dalla quale ero molto intimidito. Non ne ho mai abusato. Ero intimidito perché avevo molta paura - come ho sempre paura nella mia vita di deludere chi ha fiducia in me - avevo molta paura di deluderlo, appunto. Lo temevo molto, però nello stesso tempo quella sua fiducia (e lui non era affatto una persona tenera) mi ha sempre dato una grande carica. A scuola ci insegnava il contratto nazionale. Naturalmente non parlava soltanto del contratto nazionale, parlava della sua immensa esperienza. Era il creatore del teatro pubblico in Italia, colui che aveva sgombrato la strada perché potesse emergere l'immenso talento di Strehler, il più grande regista che sia mai esistito. Tutto quello che Grassi diceva lo ingoiavo, lo bevevo. Di quello  facevo tesoro, perciò lo considero il maestro più grande. A volte gli insegnamenti si possono avere più da una piccola frase che da un anno intero di lezioni vere e proprie. Una volta Grassi stava parlando con una persona che continuava a ripetere: «noi artisti... noi artisti...». Io orecchiavo e quindi sentii: Grassi lo rimproverò dicendogli «Ricordati: questo è un mestiere. Ogni tanto, forse, i più bravi, per qualche secondo, sfiorano l'arte». Ne ho fatto tesoro e questo credo che sia un insegnamento enorme.


 

Cyrano di Bergerac
Cyrano di Bergerac


 

Insegnanti veri e propri ce ne sono stati tanti; c'è stato Ottavio Fanfani che era un attore che ha sempre lavorato in tutti gli spettacoli di Strehler. Strehler frequentava poco la scuola, ma l'insegnamento era basato su tutti i suoi allestimenti. Nella scuola insegnavano i suoi attori, quindi si sapeva tutto dei suoi grandi spettacoli, del Galileo (che mai avrei immaginato di interpretare io dopo una decina di anni), dell'Opera da tre soldi, dei suoi grandi Shakespeare, dei suoi grandi Goldoni, della prima dei Giganti della Montagna, un allestimento pirandelliano insuperato. Un regista grande come Strehler non nascerà mai, se il teatro è vero che sta finendo. Prima di lui grandi non ce ne erano stati, il regista era stato inventato da poco come figura istituzionale. Quindi il mio grande insegnante è stato il clima di quegli anni, a Milano, intorno a questa immensa figura di regista. Poi c'era Luigi Ferrante, Angelo Corti... insegnanti veri ce ne erano, ma il vero insegnamento, quello che è l'amore, il  rispetto per il teatro, l'emozione che si prova entrando in un teatro, il rigore, l'intolleranza verso chi affronta il palcoscenico con superficialità, mi è venuto da Paolo Grassi. Mi fanno una rabbia alcuni giovani attori che entrano per la prima volta nel Teatro della Pergola e non lo guardano. Chiedono subito dov'è il loro camerino per andarsi a spogliare e per dire le tre parole che devono dire. Io sono ancora emozionato quando entro in questo camerino e sono trent'anni che ci vengo. La prima volta che son venuto per fare l'Amleto non osavo entrare al pensiero di chi ci era passato, avevo le gambe che mi si piegavano. Ci sono dei ragazzi che vengono qui per la prima volta e non hanno mai avuto la curiosità di venirlo a vedere, c'è fuori la targa che celebra la presenza della Duse. Qui ho salutato Benedetti Michelangeli; non posso non pensare che qui ci sono stati Ruggeri, Randone, la Brignone… come si fa a non pensare a questo? E tutt'ora mi sento un inquilino che non so se ha il diritto di starci. E questi giovani vanno direttamente nel loro camerino, si mettono i loro stracci e dicono bene o male - non lo so, non mi interessa - le loro battute. Non li ho visti mai girare intorno a  questo palcoscenico. Palcoscenico che secondo me è ricco di migliaia, milioni di presenze.   

Anche solo per sentire il profumo del teatro…
Ma scherzi? Sai cosa c'è qui sotto? C’è la macchina scenica che solleva la platea, c’è la seggiolina sulla quale Verdi ha provato il Macbeth. Allora come fai a dire che ami il teatro? 

Quali sono le interpretazioni alle quali tiene di più?
Non so se c'è una interpretazione a cui tengo di più, ce ne è qualcuna che mi interessa di più… 

Qualche personaggio cui è più affezionato?
Nemmeno. Ci sono alcuni momenti che mi sono piaciuti per alcune cose, altri per altre. Posso dire che un personaggio mi ha dato un po' più di popolarità, un altro che mi ha dato più emozione.

Cyrano?
Sì, sì. Anche Cyrano che mi ha dato la consacrazione come determinato tipo di attore, ovvero come primo attore, se vogliamo tenere le categorie distinte. Certo, indubbiamente. Però, altri personaggi, magari meno celebrati, meno importanti, meno riusciti mi hanno dato altre cose. Perciò sono affezionato loro comunque. Alla domanda «qual è lo spettacolo che ti ha dato di più?» devo rispondere senz'altro che è il Cyrano. Lo spettacolo che mi ha dato più soddisfazione perché avevo più paura e non molta fiducia nelle mie capacità (e questo accade sempre) è Il Caligola, quello che mi ha dato più soddisfazioni interpretative perchè ha riportato a teatro delle persone che in genere a teatro non ci vanno mai (come i registi di cinema) è La solitudine dei campi di cotone di Coltes. Uno spettacolo lo ricordo più degli altri per certe cose, un altro per alcuni aspetti, un altro ancora perché magari, in quel periodo, ho vissuto un grande amore e allora quello spettacolo non me lo si può toccare perché mi fa pensare a quel bellissimo momento della mia vita. Allora mi è caro in  modo incredibile e lo metto fra le cose mie che voglio conservare nella memoria anche se  artisticamente è inferiore ad altri. E' un po’ come i figli, piacciono tutti, ognuno per una caratteristica diversa.

Lei ha messo in scena testi di Rostand, Brecht, Renzo Rosso…
Shakespeare, Marivaux, Coltes, Goethe, Goldoni…

Qual’è il suo rapporto con i testi?
Il testo è il punto di partenza, senza il testo non mi interessa nemmeno l'operazione. Non mi interessano i testi pretesti, mi interessano i testi dai quali traggo subito l'ispirazione o la capacità di individuare che cosa diventeranno sul palcoscenico. Non mi va di affrontare l'avventura di un testo aspettando di vedere come si svilupperà secondo una mia idea registica. Non mi interessa soltanto il testo come pretesto di una azione scenica. Posso classificarmi un "attore antico" nel senso che tengo molto al testo. So di non esserlo perché non affronto il testo come un trombone, anzi, amo definirmi un "attore classico sperimentale". Non è, il mio, un modo di porgere classico, vetero-trombone. Uso la voce e il corpo secondo quelle che sono le necessità che nel momento vengono richieste da una determinata situazione scenica, da quello che voglio esprimere. Allora uso gli occhi, uso le mani, uso le gambe, uso il corpo, stravolgo la voce. Questo avviene tutto di conseguenza ma la base di partenza è il senso che voglio dare al tutto, che giustifica una operazione e che mi viene dato dalla lettura e dall'apprezzamento di un testo che dev'essere già a suo modo compiuto. Poi si può farlo bene o farlo male, e quindi compierlo meglio o stravolgerlo. Il testo deve poter voler dire molto.

Cosa ha significato per lei il passaggio alla regia?
Un iter quasi naturale. Credo di poter dire, con molta onestà, che non sono mai stato distaccato dalla regia, sono sempre stato molto regista di me stesso, non mi sono mai sentito un corpo o una voce in mano a una persona. Forse perchè ho avuto la fortuna di fare le mie prime cose importanti con un regista come Scaparro che, siccome ha grande fiducia nell'attore, dall'attore si aspetta molto e quindi dà una grande libertà, non è uno di quei registi che impongono addirittura le intonazioni a un attore. E' sbagliato perché l'attore deve trovare in se stesso il tipo di intonazione che risponde a un determinato fine. Le imposizioni non sono sempre giustificate e non vanno sempre a buon fine. Scaparro lascia molto – naturalmente quando si tratta di attori in cui ha fiducia - la corda libera. Ho avuto la facoltà di dirigere me stesso come personaggio, ma anche di partecipare, con una visione globale, a quella che è la costruzione dello spettacolo. Con alcuni registi ho potuto farlo di più, con alcuni ho potuto farlo di meno. Con un regista come Ronconi - che ha una idea globale molto precisa dello spettacolo - si può anche intervenire di meno e si può intervenire soltanto sulla propria persona ma ogni tanto è anche bello avvertire la presenza di un padre che ti porta per mano e ti fa sentire protetto e sicuro. Va bene anche così ma, ripeto, siccome molti allestimenti importanti li ho fatti con un regista che mi ha lasciato molto la corda libera, ho pian piano preso l'abitudine alla direzione e mi sono sentito libero di dare un mio punto di vista e una mia impostazione anche agli altri attori. Non c'è stato un momento in cui ho detto: «voglio fare una cosa in più, voglio fare una cosa diversa», voglio seguire un iter naturale cui dare sfogo ogni tanto. A questo punto, se mi fosse concesso, ma purtroppo il mercato mi chiede come attore e devo continuare a sfangare sulle maledette benedette tavole, tuttavia, se potessi smettere per una decina di anni, mi piacerebbe fare esclusivamente il regista.

E sarebbe disposto a lasciare la recitazione?
Sono trentacinque anni che recito… è sufficiente no? Tutti i ballerini, arrivati a una certa età, diventano coreografi, non vedo perché un attore debba essere condannato a morire sul palcoscenico. E' una morte che non desidero. Dobbiamo morire tutti ma visto che devo morire preferisco morire all'improvviso nel mio letto, tranquillo, senza dar fastidio a nessuno. Il palcoscenico… sai che confusione! Le ambulanze, la polizia, per carità…  




 


Puntila e il suo servo Matti
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