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Pechino grandiosa per una Turandot vecchia maniera

di Elisabetta Torselli
  Turandot
Data di pubblicazione su web 01/02/2006  
Ma come l'avrebbe finita davvero, Giacomo Puccini, la sua Turandot? La storia della composizione delle opere del compositore lucchese è ricca di ripensamenti e di dubbi, di rifacimenti e modifiche ben oltre la data della prima rappresentazione. Non ci è mai sembrato che chiuda del tutto la questione ciò che si sa, e cioè che quando nell'autunno del '24 partì per Bruxelles, per l'operazione alla gola che gli sarebbe stata fatale, portandosi dietro gli schizzi per il finale che intendeva evidentemente completare durante la convalescenza, Puccini avesse già preso accordi con Toscanini e con la Scala per la prima dell'opera nella primavera del '25, fissato il cast, insomma ritenesse il suo lavoro virtualmente concluso o meglio da concludersi rapidamente, senza ulteriori ripensamenti, sostanzialmente avendo in mente proprio ciò che ci appare fatalmente il punto debole di Turandot: l'epilogo nuziale mediante rapidissimo sgelamento dell'algida principessa, per effettuare il quale è sufficiente il bacio rapinoso di Calaf, a cadavere di Liù ancora caldo e appena sottratto alla vista da un mesto corteo funebre... "Gran frase d'amore con bacio moderno e tutti presi si mettono la lingua in bocca", sic, aveva infatti scritto Puccini ai librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni. Turandot è una fiaba, nelle fiabe non si moraleggia, si va dritti allo scopo, vinca chi può, perda chi è destinato a perdere; ma la sanguigna trivialità del finale di Alfano come universalmente lo conosciamo (si faranno oltre le dovute precisazioni al riguardo), perché tale ci suona anche quando ingloba il materiale lasciato da Puccini, ci sembra che pesi sempre di più a ogni nuova messinscena, compresa questa, così fortunata, così esportata, del Comunale di Firenze, che si rivedeva su questo palcoscenico per la terza volta dopo il Maggio '97 e una prima ripresa nella stagione lirica del '99, con, nel frattempo, il noto allestimento all'aperto nella Città Proibita di Pechino (settembre 1998), e davanti, fra pochi mesi, la tournée del Teatro del Maggio che la porterà in Giappone.


Alessandra Marc (Turandot)
Alessandra Marc (Turandot)

Il compositore napoletano Franco Alfano (Napoli 1875 - Sanremo 1954) autore di Risurrezione (sic, 1904, da Tolstoj) e della Leggenda di Sakuntala, (Bologna 1921, seconda versione Roma 1952) era in verità tutt'altro che uno sprovveduto, e lavorò, per incarico di casa Ricordi e degli eredi di Puccini su suggerimento di Toscanini, sul materiale che Puccini aveva lasciato in uno stato sufficiente di decifrabilità, componendo un finale più lungo di quello oggi universalmente conosciuto. Un finale che avrebbe sofferto la scure spietata del celebre direttore proprio perché era troppo suo, troppo Alfano insomma, ma che ci è noto da una prima edizione a stampa Ricordi precedente alla prima alla Scala, e oggi meglio ancora dal recuperato manoscritto della partitura. Il finale accorciato e contratto dal diktat toscaniniano è quello che conosciamo tutti, da quando lo si eseguì alla Scala il 26 aprile 1926, seconda rappresentazione. Com'è ben noto, alla prima del '25 Toscanini escluse la parte completata da Alfano dopo la morte di Liù e si voltò verso il pubblico dicendo "Qui finisce l'opera perché a questo punto il maestro è morto" (frase in realtà tramandata in diverse versioni, ma quella che abbiamo virgolettata è data per buona con validi argomenti da uno studioso pucciniano attentissimo come Alfredo Mandelli nel suo saggio per il programma di sala del '97). Si è tornati negli ultimi decenni a riproporre il finale di Alfano completo (Londra, New York, Opera di Roma a Caracalla, poi sempre più spesso, anche nella Turandot realizzata qualche stagione fa in coproduzione dai teatri di Pisa, Lucca e Livorno e su altri palcoscenici italiani e no). Benché sia oggi ammesso che è migliore di quello più noto, non si può negare che il passare del tempo rende più immediatamente percepibile, proprio dalla prospettiva pienamente novecentesca da cui oggi si guarda necessariamente a Turandot, il solco che separa Alfano da un compositore della statura e capacità di aggiornamento linguistico (musicale e drammaturgico) di un Puccini.

Nel frattempo erano venute fuori altre cose emerse finalmente da ciò che Mandelli ha definito senza mezzi termini "il pesante segreto mantenuto da casa Ricordi sugli effettivi appunti di Puccini e sull'effettivo lavoro di Alfano", e un filologo pucciniano del merito di Jurgen Maehder poté finalmente studiarli a fondo, questi schizzi e frammenti di Puccini per il finale, analizzarli, darne compiutamente conto ("Analecta Musicologica" XXII, 1984, con un saggio tradotto, riveduto e aggiornato uscito sui
"Quaderni pucciniani" n. 2, 1985), portando peraltro a termine un lavoro già assai ben avviato a suo tempo da Teodoro Celli. Si tornava così a parlare su basi scientifiche di questi appunti per il finale. Finale a cui Puccini, negli schizzi e altrove, si riferisce con annotazioni misteriose quanto seducenti come "e poi Tristano", e, con altro riferimento wagneriano, "San Graal chinese" (si ricordi che lo scadere con il 1913 della cosiddetta "Lex Parsifal", che vincolava Parsifal alla sola Bayreuth per trentacinque anni dalla morte dell'autore, aveva prodotto, a partire dal capodanno del 1914, quando a mezzanotte in punto all'Opera di Barcellona subito dopo il brindisi gagliardamente attaccarono Parsifal senza por tempo in mezzo, un autentico diluvio dell'ultima opera wagneriana sui palcoscenici europei, rinverdendo alcuni grandi miti della mistica wagneriana fra cui il Graal del Parsifal non è certo dei meno influenti). Annotazioni o enigmi non meno ardui di quelli della feroce principessa, di cui si possono dare molte interpretazioni, e che hanno contribuito non poco a fare del finale di Turandot uno dei grandi simboli artistici moderni dell'incompiuto e del possibile. Uno di questi possibili è il finale nuovo realizzato qualche anno fa da Luciano Berio, ascoltato in prima assoluta in forma di concerto il 24 e 26 gennaio 2002 al festival internazionale delle Canarie nell'esecuzione dell'orchestra del Concertgebouw di Amsterdam diretta da Riccardo Chailly, poi ripreso in forma scenica ad Amsterdam ancora da Chailly, eseguito anche altrove, oggi documentato dal DVD della Turandot di Salisburgo nel 2002, direttore Valery Gergiev, regìa di David Pountney.


Carlo Bosi (Pang), Fabio Previati (Ping) e Iorio Zennaro (Pong)
Carlo Bosi (Pang), Fabio Previati (Ping)
e Iorio Zennaro (Pong)

Aggregati pentatonici o modali o paradodecafonici, timbri taglienti, poliritmie che propongono singolari contaminazioni-addomesticamenti - perché Puccini è pur sempre un compositore votato al successo - di tutte le tendenze musicali più avanzate allora in atto, per intessere il racconto di questa fiaba crudele: oggi si ha finalmente un'immagine più esatta di Puccini come compositore internazionale aggiornato e pienamente inserito nella composizione del proprio tempo (diciamo oggi, ma in realtà quest'immagine la proponevano già René Leibowitz e Mosco Carner quando in Italia si considerava Puccini un compositore arretrato, sentimentale, da piccoli borghesi), e nulla vieta di fantasticare ulteriormente su soluzioni diverse. Si ascolta la musica dell'ebbrezza di sangue con cui la folla di Pechino invoca l'opera del boia; si ascolta l'enigmatica estraniazione della melodia da se stessa che c'è in Turandot tante volte, quando una linea tipicamente e maturamente pucciniana da Tabarro e Suor Angelica, calda e inebriante o dimessa e struggente, in orchestra o tra le parti vocali, viene immessa in una ritmica, in un'armonia, in un'orchestrazione taglienti e barbariche da Sagra della Primavera o ambiguamente diafane da Pierrot Lunaire; si osserva nel terzo atto l'improvvisa metamorfosi delle tre maschere comiche, Ping, Pang e Pong, in figure quasi da teatro della crudeltà, e ci si ritrova a immaginare un altro finale per Turandot, senza vietarci di pensare ad un Puccini che alla fine rimette in discussione tutto, cestina il duetto d'amore, manda Turandot a sposare Calaf con la stoica impassibilità di certi personaggi beckettiani, o in un'aura di sospesa e stilizzata cerimonialità, comunque facendo piazza pulita di ogni bombastico tripudio di sensualità pseudo-naturalista o pseudo-wagneriana. Ciò che si proponeva, appunto, Luciano Berio nel comporre il suo finale alternativo (al riguardo c'è un'intervista a Berio realizzata da chi scrive questa recensione, che uscì sul "Giornale della Musica" nel febbraio del 2002 ed è consultabile anche sul sito del Centro Studi Giacomo Puccini). Forse, molto semplicemente, Puccini è morto con Liù e allora bisognerebbe fermarsi dove si fermò Toscanini alla prima del 25 aprile 1926 alla Scala, fare uno stacco deciso e lasciare la conclusione a soluzioni teatrali diverse, magari senza canto, magari arditamente multimediali, con gli schizzi di Puccini immessi e straniati in un ambiente sonoro postmoderno da computer music, su sfondi e proiezioni da manga giapponese.

La storia deriva da una delle fiabe teatrali settecentesche di Carlo Gozzi. L'opera-fiaba Ariane et Barbe-bleue di Paul Dukas (1907), Barbablù di Bela Bartok (1911), l'altra Turandot, quella di Ferruccio Busoni precedente a quella di Puccini (1917), ma anche molti episodi del teatro di Stravinskij negli anni Dieci e Venti (soprattutto Renard, l'Histoire du Soldat, Le Rossignol, e a ben vedere, molto tempo dopo, anche La carriera di un libertino) rappresentano infatti l'aprirsi nel teatro musicale del Novecento di un filone di fiabe, maschere e apologhi che si colloca risolutamente fuori dall'opera naturalista e dalle sue convenzioni (un episodio singolare di riproposta intessuta di sagaci metateatralità del mondo della Commedia dell'Arte era già però l'interessantissimo libretto di Luigi Illica per Le Maschere di Pietro Mascagni, per non dire delle maschere dell'Arianna a Nasso di Richard Strauss del 1912 che Puccini aveva bene a mente, parlandone nelle lettere e nelle conversazioni durante la gestazione di Turandot). Un filone in cui si guardò con un interesse particolare proprio alle fiabe teatrali di Gozzi, autore, del resto, molto popolare in Germania fin dalla fine del Settecento (anche per i rifacimenti di Schiller) e il cui modello ci è sempre parso indubbio nello stesso Flauto Magico, il cui librettista, Schikaneder, aveva infatti Gozzi nel suo repertorio. La Donna senz'ombra di Strauss-Hofmannsthal (1919) non deriva direttamente da Gozzi ma ne ripropone fedelmente l'impianto di "fiaba filosofica", le figure, l'ambientazione e per così dire l'aura, persino certi nomi (Barach), contenuti e temi. Il geniale e divertente Amore delle tre melarance di Prokof'ev (1919, su libretto proprio dalla versione-adattamento gozziana di Mejerhol'd), si ispira dichiaratamente a Gozzi ma piega la fiaba ad un'altra filosofia, in chiave di allegra estetica rivoluzionaria. La fortuna di Gozzi nel teatro musicale del Novecento è destinata a proseguire nel corso del secolo con La donna Serpente di Casella, con Re Cervo di Henze, più recentemente con un'opera molto piacevole, L'Augellin Belverde di Jonathan Dove, proposta qualche anno fa in Italia a "Musica nel Chiostro" a Batignano.

Ma il punto centrale di tale fortuna è costituito indubbiamente dalla duplice Turandot di Ferruccio Busoni e Giacomo Puccini, ciò che propone un altro caso in cui Puccini incrociò i progetti altrui (o se ne appropriò senz'altro intralciando le fortune dei colleghi di minor successo, come dimostra la contesa fra lui e Leoncavallo sui diritti per la Bohème). La prima rispecchia in pieno l'estetica busoniana per cui il teatro musicale dev'essere una favolosa parata di entrées e numeri musicali, senza alcuna tentazione di realismo, ma dalla cui stessa leggerezza si sprigiona il senso più profondo del progetto (così soprattutto nel bell' Arlecchino destinato a comporre con Turandot un dittico), ed è sostanzialmente fedele alla trama di Gozzi: ci sono le maschere veneziane ed è Adelma (che diventerà la Liù di Puccini ma che non ne ha certo il trepido e sommesso eroismo), già infelicemente innamorata di Calaf, a rivelare a Turandot il nome del principe ignoto, che Turandot si dispone senz'altro a sposare per un capolvolgimento della volontà di cui, giacché siamo in una fiaba, nessuno richiede spiegazioni.


Marcello Giordani (Calaf)
Marcello Giordani (Calaf)

La Turandotte di Gozzi fu eseguita per la prima volta il 22 gennaio 1762 al Teatro San Salvatore di Venezia dalla compagnia di Antonio Sacchi. Come ben si si sa, l'antagonista di Carlo Goldoni non si proponeva solamente, come pure ebbe ad affermare, di svuotare le platee della commedia "riformata" trascinandosi dietro il pubblico con le novelle della nonna e le care vecchie maschere di Truffaldino, Pantalone, Brighella e Tartaglia, che nella Turandot di Puccini diventano il terzetto Ping, Pang e Pong che eredita dalle maschere la tradizionale Weltanschauung antieroica e l'amore per la vita e i suoi piaceri. Anche in Turandotte predomina la battaglia antilluministica delle altre fiabe (soprattutto del bellissimo Augellin Belverde): Turandotte è cattiva e taglia le teste dei giovanotti perché è un accidente di femminista-illuminista che non accetta la sottomissione femminile in stile orientale, secondo quanto dichiara apertamente ai dignitari del Divano, ed è con un rapido voltafaccia degno di un'altra eroina di Gozzi, la simpatica Marfisa Bizzarra, che alla fine le salta il ticchio di far pace coi maschi, tanto che, avanzando per la licenza d'uso, proclama: "Sappia questo gentil popolo dei maschi / ch'io li amo tutti". Un congedo che illustra il tono generale comico del lavoro; ma, attraverso la prontezza con cui Timur e Barach (l'aio di Calaf) accetterebbero di sacrificare le proprie vite per salvare quella di Calaf, Gozzi intendeva fare la sua brava polemica contro il preteso '"utilitarismo sentimentale" moderno (leggi: illuminista) per cui si ha ragione di amare solo chi ci procura vantaggi e non tribolazioni (un punto, questo, più ampiamente svolto nell'Augellin Belverde).

Puccini invece prende di petto il contenuto del personaggio, il vissuto di Turandot,
decidendo di motivarci con il racconto dell'antica violenza subita da Lo-u-ling l'odio per gli uomini e la ripugnanza alle nozze. Ma proprio per questo ha bisogno di trasformare la bizzarra principessa gozziana in un idolo crudele e seducente della distruzione, a cui fin dall'inizio assegna una vocalità tagliente e straniata, e che giustamente deve preparare (perché quell'idolo è lo specchio di pulsioni profonde) con ciò che ci appare una delle grandi novità della drammaturgia e della musica della Turandot pucciniana, l'abbagliante e musicalmente modernissimo quadro iniziale di una Cina arcaica, ebbra di morte non meno della sua principessa. Puccini profonde in Turandot temi cinesi più o meno autentici presi da varie compilazioni (su cui si diffonde soprattutto la celebre monografia pucciniana di Mosco Carner), ma le sue note esotiche non hanno più l'amabilità innocua delle vecchie cineserie e vengono reinterpretate in un contesto sonoro arcaico-moderno, ricco di eterofonie, poliritmie e percussività talvolta esemplate sulle orchestre orientali di gamelan e affini (che aveva già conquistato Debussy quando si cominciò a sentirle in Europa alle Esposizioni Universali).

Se, in questa chiave, il sacrificio dei pretendenti e l'autoimmolazione di Liù ci fanno pensare ai riti e all'Eletta del Sacre stravinskijano, il tema del rifiuto della femminilità e della vita calda dei sensi, quello della vendetta di un'onta patita profondamente, avvicinano Turandot all'isterica Elettra straussiana che la precede di un decennio e a cui è così prossima anche nella definizione della vocalità. Turandot, come in Richard Strauss Elettra, sono già sul lettino della nascente psicanalisi (ma in questa nuova ermeneutica dei propri personaggi forse Puccini ha addirittura preceduto Strauss, se pensiamo a certi profondi carotaggi che la sua musica effettua nel tratteggiare, nella Fanciulla del West, il rapporto fra la mammina-maestrina Minnie e i maschi-bravacci che la circondano). Questa nuova e più avanzata frontiera di una realtà da tradurre in rappresentazione non impedisce a Puccini di inserire nella sua Turandot un tocco soprannaturale da "teatro di magia", le voci delle ombre dei pretendenti giustiziati che incoraggiano Calaf ad affrontare la prova (e questi fantasmi di morti per amore uniscono la prima opera di Puccini, Le Villi, all'ultima), e di salvaguardare accuratamente nella sua ricca e composita mistura anche l'ingrediente comico, con la felicissima rimodulazione delle maschere veneziane nel terzetto Ping, Pang e Pong. E la mistura riesce del tutto nuova perché di fatto nessun tono prevale completamente sugli altri.

Zubin Mehta è stato fra i primi direttori a perseguire una lettura modernista di Turandot avvicinandola ai suoi prediletti Strauss, Mahler, Stravinskij, Schoenberg e Bartok. Come scrive Giuseppe Rossi nel Taccuino del discofilo sul programma di sala riferendosi in particolare all'edizione discografica di Mehta del 1972 per la Decca con Joan Sutherland, Luciano Pavarotti e Montserrat Caballé, da Rossi considerata il risultato migliore nell'intera storia discografica di Turandot, "le tinte sfarzose e accecanti di questa esecuzione, la giusta angolosità dei contorni ritmici, il rilievo sfrontato delle percussioni concorrono ad interpretare l'orientalismo della scrittura come indispensabile effetto drammatico nella rappresentazione di un mondo arcano e crudele". Una valutazione confermata sostanzialmente da quest'ultima edizione fiorentina come dalle precedenti del '97 3 del '99, anche se forse, nelle due recite che abbiamo seguito, con minore lucidità, a contorni un po' ingrossati, con speditezza di narrazione avvicente come sempre ma stavolta anche troppo pronunciata, forse con meno cura dei dettagli. Una lettura, comunque, che resta di grande rilievo.


Marcello Giordani (Calaf) e Alessandra Marc (Turandot)
Marcello Giordani (Calaf) e Alessandra Marc (Turandot)

Quanto alla messinscena, il senso dell'operazione del 1997 che si è tornati a riproporre adesso, con la regia di Zhang Yimou che ha segnato il debutto nell'opera del regista di Lanterne Rosse e l'apporto dei suoi collaboratori connazionali alle scene, costumi e coreografie, era ed è quello di un incontro-confronto tra due tradizioni teatrali, l'opera lirica occidentale e l'opera cinese classica. La sontuosa e sfarzosissima regia di Zhang Yimou è di pieno gradimento del pubblico, con le sue delicate fantasmagorie, le sue soluzioni ricche di meraviglia e di poesia. Le evocazioni lunari del primo atto, le lanterne della notte di Pechino nel terzo, lo squisito "sogno" del secondo atto, con il fondale trasparente animato da colorate liquescenze, figure femminili e ombrellini mentre Ping, Pang e Pong si abbandonano allo struggente ricordo delle loro case di campagna, la grazia e le acrobazie coreografiche dei danzatori del Jilin City Song and Dance Ensemble, l'ariosa e favolistica comicità che aleggia intorno al trio Ping, Pang e Pong fin dal loro apparire nelle portantine, il mesto rituale di omaggio a Liù morta con la posa dei ventagli, tutte queste sono cose che non possono non piacere, ed è affascinante anche il codice gestuale stilizzato e cerimoniale proposto da Zhang Yimou (anche se stavolta era soprattutto la Liù di Norah Amsellem a farsene carico).

Ma la sensazionale magnificenza di questa messinscena finisce, diciamolo pure, in un certo qual dilagare, quasi più da musical kolossal che da opera, dello sfarzo, dei drappi e ventagli, dell'affollamento della scena, dei movimenti coreografici inseriti generosamente, di policromie abbaglianti. Di modo che, anche se l'intento è "filologico" nel citare (così crediamo) i modi di rappresentazione tipici dell'opera cinese e/o all'insegna di una vitale contaminazione con i nostri, curiosamente l'effetto può finire per ricordare una regìa da prima della Scala all'antica, in una sorta di tenzone fra l'occhio e l'orecchio in cui i sensi sono anche troppo spasmodicamente sollecitati. Tanto più che in questa tenzone Mehta non si tira certo indietro, spesso impegnando le voci in una competizione con l'orchestra non priva di rischi. Ma, come si è visto anche nei recenti Otello e Don Carlo, Mehta si gode con la sua fida orchestra fiorentina una partitura che adora, e quanto al palcoscenico, più o meno, prende quel che c'è e confida nelle buone disposizioni del pubblico, anche se si tratta di voci che, in tutta franchezza, qualche decennio fa un pubblico italiano avrebbe forse contestato con severità: d'altra parte, diciamolo pure, è ciò che offre la scena lirica attuale, così prodiga di cantanti deliziosi per Haendel, Mozart e Rossini ma così avara di pesi massimi vocali che siano anche bravi cantanti e presenze sceniche convincenti quando c'è da fare Wagner, Strauss e Puccini. Di modo che su quei ring si scaraventano anche voci la cui categoria naturale sarebbe magari quella dei pesi medi... ma la fatica e il disagio si sentono tutti.

L'attesissimo Marcello Giordani di cui i critici americani, che forse hanno memoria più corta dei loro colleghi europei, parlano come di una voce addirittura divina, ha in effetti per Calaf mezzi e metalli invidiabili, doti tecniche di vero tenore drammatico, a suo agio nell'acuto svettante di un "Vincerò" come nei tratti più smorzati di dolcezza e di ben cantare ("Non piangere Liù"), perché cantare ci sembra che sappia, ma del tenore drammatico ha anche tutte le tradizionali platealità. Ha riscosso un trionfo, ma che poi ci sia qualche interesse, qualche mistero un po' più conturbante nella sua voce e soprattutto nella sua costruzione del personaggio, questo non lo diremmo proprio. Carl Tanner che gli si avvicendava non passava l'orchestra se non negli acuti: è una di queste voci in sé belle ma di poco squillo, costruite, ci sembra, a furia di arrotondare e brunire, probabilmente ben figuranti in un'incisione in studio, ma poco "in avanti" come dicono quelli del mestiere, e quando si tratta di passare l'orchestra della Turandot, tanto più della Turandot di Zubin Mehta, sono dolori, anche se il buon legato che Tanner sfoderava in certi momenti mostrava che le peripezie della carriera di tenore drammatico non ne hanno ancora imbruttito l'emissione come a certi altri Calaf che questa Turandot fiorentina nelle sue varie avventure ha dovuto giocoforza subire. Le due Turandot che si avvicendavano erano Alessandra Marc, impacciata più che sostenuta da una vocalità importante ma rigida, affaticata da un ruolo che, per ora, non ci sembra starle bene addosso né vocalmente né tanto meno scenicamente, e Audrey Stottler, che ci è sembrata più gradevole e assai più attenta al codice gestuale orientale della regia di Zhang Yimou, ma anche di meno peso in certe zone della vocalità.

Ma il punto è che tutti questi cantanti comunicano soprattutto la sensazione della grande fatica (non Giordani però), dell'improbo e pericoloso cimento in cui si sono messi, di una religiosa attenzione a posture fisiche favorevoli a tal cimento e dalle quali dunque fa d'uopo non schiodarsi. Questa vocalità "pesante" (ma attenzione, è Puccini, non possiamo farlo senza vibrazioni di dolcezza, di sdegno, di vero sentimento) sembra venir emessa da un faticoso congegno che bisogna amministrare, magari con l'obiettivo di battere un record come sembrava evidente nei Vincerò sia di Giordani che di Tanner, senza riguardi a ciò che potrebbe essere
opportuno dal punto di vista di una minima credibilità teatrale affinché corpo, voce e personaggio arrivino finalmente a fare tutt'uno, come sarebbe logico e giusto. Quanto a questo crediamo che non Zhang Yimou, né Franco Barlozzetti che riprendeva la regìa, ma nemmeno Stanislavskij sarebbe riuscito ad ottenere qualcosa da questi preoccupati o, a contrario, anche troppo orgogliosi ministri della propria vocalità, guardando i quali si riflette sull'urgenza di rifondare la didattica del canto sulla base del concetto che l'opera è teatro, non pura performance vocale, che c'è da portare in scena non solo una voce ma anche, lo ripetiamo, un corpo e soprattutto un personaggio.

Di modo che ancora una volta, come nel '99 con altro cast ma analoghi problemi, è stata la Liù di Norah Amsellem a conquistarci tutti, dall'etereo, sommesso ma intensissimo volo verso l'acuto del "Mi hai sorriso", quasi all'inizio dell'opera, al grande cimento di "Tu che di gel sei cinta" cantato con emozionante semplicità, e si adattavano benissimo alla sua figurina gentile la gestualità orientale stilizzata e la toccante modestia della mise di giovane schiava. Ricordiamo anche il valente Timur di Giacomo Prestia, i simpatici e musicalmente inappuntabili Ping, Pang e Pong, Fabio Previati, Carlo Bosi, Iorio Zennaro, il Mandarino di Antonio De Gobbi, l'Altoum di Enrico Cossutta e le due ancelle di Ottavia Vegini e Laura Lensi, il coro del Maggio e il coro dei bambini di Marisol Carballo.


Turandot
dramma lirico in tre atti e cinque quadri di Giacomo Puccini


cast cast & credits
 
trama trama

 

 

Norah Amsellem (Liù) e Marcello Giordani (Calaf)
Norah Amsellem (Liù)
e Marcello Giordani (Calaf)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Alessandra Marc (Turandot) e Marcello Giordani (Calaf)
Alessandra Marc (Turandot)
e Marcello Giordani (Calaf)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Norah Amsellem (Liù) e Giacomo Prestia (Timur)
Norah Amsellem (Liù)
e Giacomo Prestia (Timur)



 

 
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