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Teatralità dell'opera in concerto

di Paolo Patrizi
  Pietro Picone ed Ezio Maria Tisi, foto S. D'Ascanio
Data di pubblicazione su web 31/01/2006  

Con una narrazione che incalza lo spettatore senza tregua, e la fosca tenebrosità che nega al dramma il minimo barlume di catarsi, Roberto Devereux è opera di contrasti deflagranti. Si dirà: accade a Donizetti tutte le volte che si confronta con una vicenda del Rinascimento inglese. Ma la cornice, qui, è emotivamente più devastante di quanto accada in Anna Bolena e Maria Stuarda, richiedendo a cantanti e direttore ben altra scarnificazione, tensione, violenza. Non sarà un caso che, nella breve storia interpretativa del Devereux nell'ultimo quarantennio, l'unica bacchetta idiomatica sia stata quella di Gavazzeni, per il quale l'urgenza drammatica era il primo valore, pure nelle opere belcantistiche. Così come non è un caso che spetti a un soprano con le caratteristiche di Leyla Gencer, piuttosto che alla Sills o alla Caballé, la palma d'oro per la protagonista più memorabile; o che, scendendo ad anni più vicini, una outsider donizettiana come Raina Kabaivanska qui abbia saputo dire parole più eloquenti di una vocalista di lungo corso come Edita Gruberova.

Se le cose stanno così, e quello di Gavazzeni non era un abbaglio stilistico, un'esecuzione in forma di concerto (come si è data ad Ancona, sia pure per forza maggiore) può aiutare a far luce su questi aspetti. E anche a evidenziare che, sebbene melodramma ''a numeri chiusi'', il Devereux si affranca dalla tradizionale griglia paratattica, costruendo, sulla falsariga del Bellini più progressista, ampi blocchi drammatici che travalicano il singolo brano. Che le opere del belcanto, almeno quelle fuori repertorio, vengano proposte in via concertistica non è una novità: basta pensare a certi capitoli fondamentali della Donizetti renaissance alla Carnegie Hall negli anni Sessanta e Settanta. Ma all'epoca la prospettiva era di non intralciare il lavoro della primadonna, puntando i riflettori sulle gemme vocalistiche da riscoprire. Oggi, invece, l'assenza della messinscena può giovare a una lettura senza filtri di drammaturgie su cui non si è innestata una tradizione esecutiva. 
 

Nidia Palacios
Nidia Palacios, foto S. D'Ascanio

 

Certo: in una vicenda come questa, in cui sono spesso gli oggetti (l'anello, la sciarpa...) a portare avanti lo sviluppo della trama, l'esecuzione concertistica non chiarisce tante cose. In compenso, potersi concentrare sul gesto del direttore aiuta a rendere più chiara la sua lettura. Si vedrà così come gli affondi – nitidi e asciutti – della bacchetta di Bruno Campanella si traducano in una concertazione sensibile agli equilibri architettonici dell'opera, piuttosto che alla frantumazione delle sue articolazioni interne. La cupezza resta in sottordine rispetto alle oasi di lirismo: non a caso Campanella trova il suo momento migliore nella sinfonia, aggiunta da Donizetti per una ripresa parigina e sostanzialmente estranea al clima della partitura, al di là del fatto che ne anticipa alcuni spunti tematici. Il buon amalgama complessivo rende comunque apprezzabile la sua prova, mentre lascia perplessi una certa omogeneizzazione della scelta dei tempi, che non rende palpabile quella dialettica tra ''larghetto'' e ''allegro'' su cui si basa gran parte dei brani solistici.

Inoltre, paradossalmente, l'esecuzione concertistica valorizza la recitazione. Primo: perché, in mancanza di regia, gestualità e mimica facciale sgorgano spontaneamente dal canto, assumendo forse minor rilievo, ma anche un sapore diverso. Staticamente visionaria, l'ultima scena appare di una teatralità stringente anche in forma d'oratorio, tanto più che Dimitra Theodossiou la risolve con pochi gesti eloquentissimi. Secondo: perché ciò consente, agli artisti che sappiano farlo, di ''recitare con la voce''; di essere insomma attori vocali, non cantanti attori. Terzo: concentrarsi sul volto dei solisti permette di capirli meglio sotto il profilo tecnico. Si noterà, ad esempio, il dilatarsi delle narici del baritono Roberto Frontali. E si comprenderà come (un po' alla Bastianini, senza voler andare a modelli più lontani nel tempo) la potenza del suo volume sia frutto, in parte, di un uso delle fosse nasali come ulteriore cavità di risonanza.

La Theodossiou appartiene, quando vuole, alla categoria delle vocaliste che interpretano: i recitativi sono sviscerati con senso della parola scenica, il declamato è curato non meno delle agilità, a una bella dialettica di pianissimi fa riscontro l'incisività del canto di sbalzo. E non le manca il coraggio di ricorrere al grido, come il primo ''Va'!'' di ''Va', la morte sul capo ti pende''. L'ampia intervallistica richiesta al canto del suo personaggio (che, non dimentichiamolo, è Elisabetta I d'Inghilterra) non la intimidisce, neppure nei più inopinati strapiombi al grave: alla frase ''del tremendo ottavo Enrico'' il salto di sedicesima è impavidamente onorato. Il tutto mantenendo una voce ampia e timbrata, anche se gli estremi acuti oggi suonano piuttosto metallici. 
 

Massimiliano Pisapia, Nidia Palacios, Dimitra Theodossiou, Roberto Frontali
Massimiliano Pisapia, Nidia Palacios, Dimitra Theodossiou, Roberto Frontali, foto S. D'Ascanio

 

Una diminuita freschezza si può notare anche in Frontali, che ha acquistato molto in sonorità ed espansione e perso qualcosa in flessibilità e morbidezza. Ma non è cosa grave, in un personaggio più proiettato verso Verdi (tradito dalla moglie e dal suo migliore amico, Nottingham è una diretta anticipazione del Renato di Un ballo in maschera) che occhieggiante all'antagonista cavalleresco del melodramma protoromantico. E soprattutto, ascoltando Frontali, resta quella sensazione di particolare appagamento che, tra tutte le voci cantate, solo il baritono drammatico sa trasmettere, quando è veramente baritono e veramente drammatico.

Meno probanti gli altri. Alle prese con un protagonista solo nominale, ma comunque impegnativo, Massimiliano Pisapia è un Roberto alterno: più gradevole in alto (grazie a un registro acuto naturalmente espanso) che al centro (dove si odono suoni compressi), generoso nella declamazione ma poco suadente nel cantabile. Nidia Palacios ha il limite di un vibrato invasivo e di note gravi un po' esili per un ruolo che è di ''secondo soprano'', ma nel senso di mezzosoprano acuto piuttosto che di soprano corto. Con queste caratteristiche punta a una raffigurazione afflitta e dimessa: e tuttavia resta l'impressione – per quanto Sara sia, nel quadrilatero amoroso del Devereux, il lato messo meno a fuoco da Donizetti – che certi aspetti isterici e sensuali del personaggio, pur restando sottopelle, potevano essere valorizzati. Restano le parti minori. Ma l'esecuzione concertistica per loro è un pericoloso primo piano. Forse in un allestimento scenico, con le distrazioni che comporta, i suoni ingolati del tenore Pietro Picone e quelli oscillanti del basso Ezio Maria Tisi, in altre occasioni validi comprimari, sarebbero passati inosservati.



Roberto Devereux
tragedia lirica in tre atti


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