Il grande maestro cinese Hou Hsiao-Hsien, già Leone doro a Venezia nel 1989 con Città dolente e più volte premiato a Cannes (Il maestro burattinaio, 1993, e Millennium Mambo, 2001) torna a riflettere sulla labilità dei sentimenti, sulla potenza evocativa dei ricordi e sulla suggestione delle immagini, con un film in tre episodi che raccontano altrettante storie damore ambientate in epoche lontane e diverse tra loro.
Nel primo episodio (1966), un giovane in procinto di partire per il servizio militare conosce la cameriera di una sala biliardi e, quando lei si sposta per lavoro, la cerca fino a ritrovarla in unaltra città. Nel secondo episodio (1911), un ricco padre di famiglia intercede affinché la cortigiana che suo figlio ha messo incinta si impegni in un contratto matrimoniale. Nel terzo episodio (2005), a Taipei si consuma lamore tra una cantante e un fotografo che già convive con la propria donna.
La struttura narrativa di Three Times, che ricorda quella di 2046 di Wong Kar-Wai, con storie multiple che si intrecciano tra loro, è in questo caso particolarmente rigida. I tre episodi, al di là della presenza degli stessi attori, non hanno punti in comune e procedono linearmente verso una conclusione che è definitiva e non troverà alcuno svolgimento successivo negli episodi seguenti. Per questo motivo si può quasi parlare di tre opere a se stanti, concluse ed esaurite ciascuna nel proprio ambito; anche lo stile è piegato alle esigenze della storia che racconta, pertanto ogni episodio evidenzia una sua specifica individualità che lo differenzia dagli altri.
Il primo episodio descrive con tenue intensità il lento nascere di un amore delicato e quasi ingenuo, imprigionato in una sospensione che annulla lo scorrere del tempo e separa i due (non ancora) amanti fino allincontro finale. I due personaggi sono quasi esclusivamente corpi ed entità, data la scarsità dei dialoghi e delle parole, che dà vita a unopera sussurrata, meditata, priva di accenti emotivi e attenta invece ai più labili rivolgimenti interiori dei due protagonisti. Hou Hsiao-Hsien sembra voler indagare nelle pieghe più nascoste del silenzio, nellimpossibilità (o incapacità) di comunicare, consegnando i propri sentimenti a ciò che solo i gesti, gli sguardi e la vicinanza fisica possono esprimere.
Il secondo episodio, girato con unimpeccabile eleganza formale, è una rielaborazione dei film muti: i personaggi parlano ma noi percepiamo i loro dialoghi soltanto attraverso le didascalie inframmezzate alle immagini, mentre una musica classica dolce e suadente fa da filo conduttore al raffinato rapporto che si istaura tra luomo e la donna, individui appartenenti a classi sociali diverse che, tuttavia, trovano una forma di affinità reciproca nel dialogo e nella comune condivisione dellamore verso una persona a entrambi molto cara.
Il terzo episodio, infine, ambientato nel vorticoso caos cittadino di Taipei (proprio come Il gusto dellanguria di Tsai Ming-Liang), allenta dichiaratamente le corde del rigore formale che caratterizza lepisodio precedente (e anche, in una certa misura, il primo), immergendo i protagonisti in una confusione esistenziale dalla quale non emergono mai. I loro abbracci e amplessi sembrano provocati dal bisogno di trovare conforto nellaltro più che dettati dalla passione reciproca; ed essi diventano, così, emblemi di un amore soffocato dalle pressioni quotidiane, impossibilitato a svelarsi pienamente e sbocciare nella sua smisurata passione.
Il film, in definitiva, trova proprio nelleterogeneità degli episodi il suo punto di forza e insieme il suo punto di debolezza. Perché se è vero che essi mostrano diverse sfaccettature dello stesso tema (e la moltiplicazione dei punti di vista è sempre un arricchimento), risulta tuttavia difficile trovare lomogeneità che un film richiederebbe, con il rischio di perdersi di una reiterazione di sollecitazioni visive e narrative che alla lunga finisce per stancare. A Hou Hsiao-Hsien, insomma, nonostante il suo indubbio talento visivo, evidente per la verità soprattutto nei primi due episodi, sembra mancare un sufficiente controllo della materia. Il film, a tratti sontuoso e magistralmente interpretato, pur regalando suggestioni sublimi e momenti di alta drammaturgia, risulta però eccessivamente sfilacciato e disomogeneo. Una sorta di "trilogia dellamore" (la definizione è senza dubbio riduttiva) che rimane colpevolmente abbarbicata sulle convenzioni del genere e alla raffinata abilità tecnica del regista, e che non soddisfa pienamente chi sempre è alla ricerca dei contenuti che travalichino gli steccati spesso troppo esili della forma.
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