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La messinscena dell'orrore

di Marco Luceri
  Oliver Twist
Data di pubblicazione su web 29/10/2005  

E’ un grande ritorno quello di Roman Polanski, con il suo ultimo film Oliver Twist, tratto da uno dei maggiori capolavori della letteratura ottocentesca, Oliver Twist, appunto, dello scrittore inglese Charles Dickens. Dopo il meritato successo andato al suo film precedente, non era certo facile per l’ormai maturo autore polacco reggere la sfida di un film epico, spettacolare e al contempo intimista e struggente come lo era stato Il pianista. Eppure l’operazione di trasportare sullo schermo questo classico letterario (per la terza volta, ricordiamo il celebre precedente girato nel 1947 da David Lean e quello meno riuscito nel 1982 di Clave Donner) ha consentito a Polanski non solo di misurarsi con un testo sicuramente difficile e complesso, ma anche di riversare su di esso il suo sguardo d’autore, mantenendone la natura originaria, ma ampliandola a dismisura in una nuova ri-lettura.


Uno dei meriti maggiori del film è quello di fare, per così dire, genere a sé. Se il testo di Dickens presenta la storia del povero orfanello Oliver Twist come chiave d’accesso per la descrizione di un mondo, quello dell’Inghilterra vittoriana, retto da regole feroci e dal conformismo sociale più bieco, in un ritratto storico impietoso quanto lucido e spietato, il film si spinge molto oltre: grazie alla messinscena Polanski crea una sorta di horror storico-letterario in chiave autobiografica, riversando in esso gran parte degli stilemi appartenenti al suo inconfondibile stile.



Se infatti nell’analisi del film si parte proprio dalla messinscena, sin dalle prime sequenze è chiaro che il pauroso mondo moderno cui va incontro il giovanissimo Oliver (Barney Clark) non gli riserverà certo lusinghe e favori. Stupenda, a tal proposito, è la seconda scena del film, che sembra essere mutuata da Metropolis, nel presentarci l’alienante e omologante schiavitù verso cui sono indirizzati i poveri orfanelli. Logico allora che il tema della fuga (vero collante narrativo di tutte le sequenze del film) sia da subito per il bambino l’unica ancora di salvezza in una società in cui la sua vita non vale quasi assolutamente nulla. Questo figlio di nessuno per tutto il film dovrà separarsi dolorosamente in ogni situazione da qualcuno o da qualcosa. Il motivo autobiografico è fin troppo evidente e rimanda alla tragica situazione vissuta da Polanski durante l’infanzia, quando la sua famiglia, durante l’occupazione nazista della Polonia, fu perseguitata sebbene lui riuscì, alla fine, a salvarsi per miracolo.


Molto intelligentemente dunque, nascondendosi dietro il modello del personaggio letterario, Polanski ricostruisce nei minimi dettagli l’intero mondo sociale della Londra vittoriana (anche se il set è stato in gran parte realizzato a Praga), in cui della tanto famigerata "civiltà" ci sono pochissime tracce, anche perché Oliver viene risucchiato fin da subito nel vortice infimo della criminalità dei bassifondi. E’ una Londra paurosa quella in cui il bambino muove i suoi passi, assoldato da subito nella composita banda di furfantelli messa insieme dal temibile e bieco ladro ebreo Fagin (Ben Kingsley, il cui volto viene deformato da una maschera dietro cui ci offre una delle migliori interpretazioni della sua altalenante carriera). In questa metropoli sporca, fatiscente, piena di criminali, puttane, ladri, affaristi, in preda alla corruzione e al malcostume, Polanski annulla, nel brulicare di un’umanità alla deriva, la differenza tra interni ed esterni: avvolge nell’oscurità sia le stanze di appartamenti e tribunali che le strade fangose di questa giungla moderna.



Tutti i personaggi nei loro spostamenti entrano ed escono da zone oscure, per cui, come avviene in quasi tutti i film di Polanski, lo spazio diventa puramente mentale; le strade diventano i corridoi della mente, i vicoli e qualsiasi elemento della messinscena sono funzionali a creare un non-luogo amplissimo in cui è facile perdersi perché si è costantemente senza bussola e la sola legge che conta è sopravvivere, a tutti i costi.


Si deve principalmente a questa impostazione, tutta polanskiana, la costante tensione che per più di due ore tiene lo spettatore incollato alla propria poltrona. La struttura del film infatti, sia per quanto riguarda le scelte formali, sia per la caratterizzazione dei personaggi, tende costantemente verso l’horror, non come scelta di genere, ma come giustificazione storica e artistica alla follia della leggi ferine che sottostanno alla società messa in scena. Da questo punto di vista Oliver Twist è la continuazione de Il pianista perché nei due film la presenza del male è ovunque e sembra essere una ragione stessa dell’esistenza, ed è parte integrante della Storia e non più solamente un’oscura vicenda in seno alla società borghese, come avviene, ad esempio, nella tragica situazione di coppia in Rosemary’s baby.



Un male strisciante, quello del mondo di Polanski-Dickens, che coinvolge anche le istituzioni inglesi, chiuse nel bieco mondo della conservazione di se stesse, impietose verso chi (molti) non rientra nelle leggi (fatte da pochi). La via d’uscita, e l’amarezza finale della finta salvezza, sono una evidente dichiarazione dell’impossibilità di sfuggire al male, che se viene superato momentaneamente come fatto privato, resta nelle maglie della storia degli uomini, piccoli o grandi, ricchi o poveri che siano, come cancro non debellabile, e verso cui, paradossalmente, ci si sente prima o poi perfino attratti.

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Oliver Twist
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Roman Polanski
Roman Polanski




 

 
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