La nuova stagione della Fondazione Petruzzelli si è aperta a Bari lo scorso 7 ottobre, presso il Teatro Piccinni, con un titolo importante, anche se scarsamente rappresentato: The Beggars Opera di Benjamin Britten. Diciamo subito che la scelta, azzeccatissima, ha trovato entusiastico riscontro di pubblico, che ha rumoreggiato solo per solidarizzare con le forze sindacali dei lavoratori dello spettacolo durante la lettura di un comunicato di protesta contro gli offensivi tagli di bilancio alla cultura operati recentemente dal governo Berlusconi.
Moni Ovadia (Beggar), Julianne Young (Polly),
Simon Edwards (Captain Macheath)
The Beggars Opera (Londra 1728), è una ballad opera del primo Settecento, antesignana del genere, scritta da John Gay - sodale di Jonathan Swift - e, quanto sembra, musicata dal tedesco Johann Christoph Pepusch. Essa, pur assomigliando per struttura al vaudeville francese, era in realtà qualcosa di radicalmente nuovo, mai visto ed inaudito (non solo nellaccezione specifica di "non mai udito") nel panorama teatrale e musicale britannico: una sintesi, dal punto di vista scenico, fra opera lirica, canzoni popolari inglesi, canzoni dautore, pantomima, commedia e dramma, un po sul genere del masque inglese.
Una rivoluzione epocale che si concretizzò, comè ovvio, anche nei contenuti sociali espressi nella rappresentazione. Per la prima volta, infatti, a calcare i palcoscenici non erano i personaggi mitologici o gli epici eroi di Händel, bensì la sordida marmaglia, costituita da tagliagole, prostitute ed altra gente di malaffare, che infestava le strade della capitale britannica. Essa non viveva chiusa nel proprio ghetto, ignorata dal potere e dalle classi più elevate, alla maniera della Corte dei Miracoli narrata da Hugo: vi era invece collegata e collusa, in una simbiosi che faceva il paio con la corruzione a livello centrale del coevo governo Walpole. La ballad opera non è che una feroce satira di questo degrado sociale, di cui non risparmiava di mostrare gli aspetti più lerci e deteriori. Tutto ciò non ricorda forse le miserie umane che Brecht e Weill misero alla berlina con la pungente satira di opere come Die Driegroschenoper? Infatti i due grandi autori tedeschi proprio a The Beggars Opera si rivolsero in quella mirabile occasione (1928), operandone una riscrittura.
Quando Benjamin Britten decise anchegli di metter mano allopera di Gay (nel 1948), volle mantenersi più vicino alloriginale, proponendo una parziale integrazione al testo "di parola" (da parte di Tyrone Guthrie) e, soprattutto, una riscrittura musicale rivelatasi subito difficoltosa. La prassi teatral-musicale del primo Settecento, infatti, prevedeva ampi spazi per limprovvisazione ed una pratica performativa largamente condivisa, procedure per attivare le quali non occorreva disporre di una stampa completa delle partiture.
Britten ha scelto di non variare i profili melodici - gli unici che ci siano pervenuti e che derivano in gran parte da musiche popolari inglesi - ed è invece intervenuto ampiamente sul livello armonico, ove si avverte pienamente la sua mano di compositore del Novecento, neoclassico per quanto sia ma non digiuno delle lezioni dei suoi contemporanei, compreso Weill: tutti aspetti che sono stati analizzati con efficacia da autorevoli musicologi e storici del teatro durante la tavola rotonda svoltasi prima della rappresentazione presso il Centro Ricerche Musicali "Casa Piccinni", curata da Dinko Fabris, dallilluminante titolo Lo specchio doppio: Britten tra Settecento e Novecento.
Moni Ovadia (Beggar), Simon Edwards (Captain Macheath)
Per The Beggars Opera il compositore britannico opta per unorchestrazione ridotta, di soli archi e dieci strumenti, che consente la costante emersione dei tratti solistici, ad esempio, del violino e delloboe, in pagine mirabili che a Bari hanno raggiunto, pur nellestrema funzionalità allazione drammaturgica, livelli di entusiasmante e limpido virtuosismo, grazie anche ad all'ottima Orchestra della Provincia di Bari ed alla ferma guida del direttore Rino Marrone.
La regia, perfetta nei tempi e affidata a Moni Ovadia - non digiuno delle musiche popolari inglesi, grazie al prolungato rapporto artistico intrattenuto col compianto Roberto Leydi - prevede la presenza quasi costante in scena del Mendicante (il beggar, appunto, interpretato magistralmente dallo stesso Ovadia), autore che pretende di regolare lazione secondo il proprio testo scritto, facendo impiccare dalla giustizia il protagonista Macheath (un ottimo e credibile Simon Edwards) perché delinquente e poligamo. Il Mendicante non riuscirà nellintento perché tutti gli altri personaggi reclamano a nome del pubblico un lieto fine, che consenta il ricongiungimento del bandito con due delle sue "mogli", le brave Polly Peachum (Julian Young) e Lucy (Terese Cullen). A questo finale si perviene per il tramite di un fuoco di artificio di laide esperienze verbali e comportamentali, una sorta di discesa negli inferi di una umanità degradata, in cui ognuno mente al prossimo: il marito alla moglie, lamico allamico, il politico al popolo, i padri ai figli. In questo modo, con lo spettacolo si produce una feroce critica sociale che dal Settecento, e passando per i due dopoguerra del Novecento, arriva praticamente immutata fino ai giorni nostri.
Bravissimi praticamente tutti gli attori/cantanti: Gabriella Sborgi (Mrs Peachum), Ilia Popov (Mr. Peachum), David Gagnon (Filch), Mark Holland (Lockit), Lucia Mastromarino (Mrs. Trapes). Molto utile alla caratterizzazione di questa corte dei miracoli londinese è stato il coro lOpera, diretto da Elio Orciuolo, i costumi da punk-straccioni realizzati da Elisa Savi, le scene sbrindellate di Giovanni Carluccio.
E la domanda finale del Mendicante, espressa in mezzo al pubblico a sipario ormai chiuso ma prima degli scroscianti applausi ("tutti mentono, ma perché a pagare sono solo i poveri?"), è rimasta, retorica ed irrisolta, nei pensieri di tutti i presenti.
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