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La vita è (ancora) bella?

di Marco Luceri
  La tigre e la neve
Data di pubblicazione su web 13/10/2005  

L’uscita di un film di Roberto Benigni è di per sé un evento sicuramente non circoscrivibile alla sola sfera del cinema e dello spettacolo in generale, ma si estende, grazie all’immensa popolarità del personaggio, molto oltre, coinvolgendo l’interesse dell’intera società italiana, e non solo. Basterebbe questo a destare da una parte fastidio dall’altra una malcelata ammirazione per il nostro comico nazionale e per il clamore mediatico che accompagna ogni sua nuova fatica cinematografica. Artista eclettico come pochi nell’asfittico panorama dello spettacolo italiano, il comico toscano si è saputo costruire negli anni una solida reputazione anche all’estero, disseminando la sua ormai lunga carriera di sterzate e trasformazioni a volte discutibili, ma spesso coraggiose.

Ormai sembrano lontani anni luce gli sberleffi blasfemi del Benigni di Berlinguer ti voglio bene, la corrosività di Tu mi turbi, la dissacrante ilarità di Non ci resta che piangere, insomma il Benigni che abbracciava nei comizi Berlinguer, e che in tv alzava la gonna alla Carrà e toccava le pudenda di Baudo. La vita è bella ha sancito nel 1999 il definitivo passaggio di Benigni ad uno status di personaggio molto diverso; i contenuti lirici e la struggente altezza poetica di quel film hanno involontariamente fatto del comico toscano un "autore", nel senso forse più comune del termine, ma comunque un regista a cui, purtroppo, ogni volta, si è sentiti in dovere di chiedere il capolavoro.



Se il Pinocchio è stato un grosso passo falso, ma comunque coraggioso nelle intenzionalità e nelle possibilità di chi sa, oramai, di partire sempre e comunque da un punto di forza, l’ultimo La tigre e la neve sembra restare a metà tra il film che l’ha preceduto e il capolavoro della carriera, La vita è bella. In realtà era facile aspettarsi che Benigni ritentasse la strada dello struggente apologo umanista, in tempi foschi come questi e approfittasse della recente guerra in Iraq per tentare un nuovo film sulla stupidità dell’uomo nelle vicende belliche che trasformano la Storia. Un autore capace insomma di raccontare la miseria morale della contemporaneità ricorrendo all’unico strumento di possibile salvezza, la poesia.

Chi ha visto le ultime uscite televisive di Benigni avrà certamente notato come il comico, da vero uomo di palcoscenico mediatico quale è, ha saputo collegare sempre tali apparizioni alla lettura-interpretazione dell’opera poetica per eccellenza, e cioè la Divina commedia. Scelta quasi obbligata per chi si sente in dovere di rendere quotidiani e accessibili anche gli immortali e complessi versi danteschi. C’è poco da stupirsi allora se il corpus drammaturgico dell’ultimo film ruoti attorno al significato intimo ed universale della poesia, che fa da contraltare al tema che essa ha forse da sempre privilegiato su tutti, e cioè l’amore.



C’è dunque in questa scelta una profonda coerenza da parte di Benigni, che però copre solo in parte la riuscita dell’intera operazione. Poesia e amore dunque, in uno scenario che è forzatamente condotto negli scenari della guerra irachena, visto che Vittoria (Nicoletta Braschi) resiste alle strampalate ma sincere avances di Attilio, poeta impenitente, e "fugge" in Iraq, proprio mentre inizia la guerra, per finire di scrivere un libro su un altro poeta, l’iracheno Fuad (Jean Reno), amico in comune dei due. Sfortuna vuole che la donna sia colpita e cada in coma per giorni; la forza dell’amore spinge Attilio a raggiungerla a Baghdad dove, nel caos generale, con l’aiuto di Fuad cercherà di salvarla e di riportarla sana e salva in Italia.

Se la trama è molto semplice e, come c’era da aspettarselo, infarcita di situazioni, gags e momenti di forte comicità tipici del tono drammatico di Benigni, il film sembra, nel suo incedere irruente, polarizzarsi sempre più intorno ai tre personaggi principali. Da una parte il rapporto tra Fuad e Attilio, dall’altra quello tra quest’ultimo e Vittoria. Il primo binomio è chiaramente tutto incentrato sulla diversità di risposte che la poesia può dare di fronte al dramma della realtà umana: Attilio incarna la positività, il coraggio, la vita che attraverso la poesia può comunque vincere la morte, mentre Fuad rappresenta il ripiegamento interiore, il pessimismo, il lasciarsi sopraffare dagli eventi tanto da rifiutare la vita stessa nel suicidio. Tema complesso ed avvincente questo, che però ne La tigre e la neve viene quasi ad essere soffocato per più ragioni: il cicaleccio insostenibile di citazioni da Attilio Bertolucci a Paul Eluard, da Walt Whitman a Paolo Conte ecc, esposte con una faciloneria da lista della spesa, sintomo di un esasperata ricerca di intellettualismo che francamente non vedo a cosa sia utile; Jean Reno, "costretto" a recitare in italiano, che sembra per tutta la prima parte del film ampiamente fuori ruolo; e infine una certa tendenza al didascalismo, alla ridondanza, come se la sceneggiatura (scritta da Benigni insieme al fidato Vincenzo Cerami) non bastasse già da sé a veicolare il messaggio.

La seconda traccia tematica è, come si è detto, la vicenda amorosa tra Attilio e Vittoria. La Braschi, presenza ormai monumentale (sic) nel cinema di Benigni, offre la sua migliore prova quando interpreta la donna in stato comatoso, mentre il comico toscano, dopo averne combinate di tutti i colori per cercare di salvarla, imposta il finale, naturalmente a lieto fine, sul riconoscimento da parte di Vittoria del suo salvatore, proprio come accadeva in Luci della città di Chaplin.



Tra i due motivi portanti del film però, ed è forse questo il difetto veramente strutturale de La tigre e la neve, si sente continuamente uno scollamento per cui il film finisce per ruotare sempre su se stesso, senza vere soluzioni di continuità credibili. Ciò si può avvertire non solo nella ridondanza e nella lunghezza di molte scene, ma proprio nella costruzione drammatica del film. E’ come cioè se Benigni seguisse per l’intera durata del film un canovaccio prestabilito dalle cui maglie purtroppo spesso non riesce ad uscire. Non è una questione di semplicità, bensì di scarsa chiarezza. Ciò che ne soffre è proprio la vis comica del regista, che non riesce più a commuovere, come ne La vita è bella, con l’alternanza tra il registro comico e quello drammatico.

Naturalmente il film non manca certo di scene godibili: la cena improvvisata a casa di Attilio, l’incontro con il vecchio poeta-medico iracheno, la conversazione tra Fuad e Attilio sotto il cielo di Baghdad, avvolti in una scenografia di cartapesta (di felliniana memoria), lo sguardo commovente ed intenso di Vittoria che chiude il film, lo strampalato matrimonio tra le rovine di Roma con tanto di struggente Tom Waits a fare da pianista e singer malinconico. Restano però momenti isolati, come poco chiaro appare alla fine, se non come espediente drammaturgico, la scelta del teatro di guerra, che resta per gran parte del film, immeritatamente uno sfondo per le gags di Benigni e non ha nulla a che vedere con la complessità esistenziale del lager nazista de La vita è bella.

La tigre e la neve sembra alla fine un film incompiuto, che tuttavia, e in questo mi sento di difendere Benigni, non era sulla carta facile da concretizzare proprio per quel discorso umano sul valore della poesia come rimedio alla tragicità dei tempi che stiamo vivendo. Il fatto che il comico toscano non sia in gran parte riuscito a realizzarlo non autorizza certo la cattiveria di un linciaggio da cui lo tirerei volentieri fuori. Perché è sempre molto facile rimpiangere il passato, e sempre molto difficile apprezzare il coraggio di un artista che si mette in discussione, cercando di rinnovarsi e di non restare ancorato ai facili allori. Non rimpiango né il Benigni passato, né biasimo quello di oggi, mi interessa di più vedere dove porta questo suo percorso artistico, tenendo presente che alla fine si tratta "semplicemente" di un uomo di spettacolo. E soprattutto non (grazie a Dio) di qualsiasi regime.



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La tigre e la neve
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Tom Waits
Tom Waits





 

 
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