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Tu lavorerai con dolore

di Roberto Fedi
  Alain Delon e Renato Salvatori in "Rocco e i suoi Fratelli" di Luchino Visconti (1960)
Data di pubblicazione su web 20/09/2005  
Una volta le inchieste, anche in televisione, si facevano così. Si prendeva la cinepresa (oggi si chiama ‘camera’) o la macchina fotografica (oggi ‘digitale’), e si partiva. Poi si sceglieva, si montava il servizio, e si trasmetteva; o si pubblicava sul giornale, se si trattava di carta stampata. Semplice.

Oggi no. Se si decide, per esempio, di fare un’inchiesta sul lavoro nel sud, si fa così. Si manda un operatore a girare un po’ di minuti, o magari si pesca dal repertorio. Si mette una voce narrante, con le solite banalità. Poi ci si trasferisce in studio: dove tre o quattro signori (un paio di sindacalisti, un politico del sud, magari un giornalista e probabilmente una bellona con le tette fuori o un attore bellone senza tette ma con camicia rigorosamente aperta) discettano del problema come se fosse il sesso degli angeli o una partita di calcio. Si fanno un po’ di pubblicità, un’oretta di chiacchiere, e arrivederci. Buonanotte.

Loredana Dordi è un caso a parte. Lei le inchieste le fa come si facevano una volta, e anche meglio. Se vuol far conoscere il mondo notturno e selvaggio delle prostitute schiave le va a trovare, le fa parlare, e ce le porta in casa in un’inchiesta meravigliosa per capacità giornalistiche e umane. Se vuol far conoscere il mondo assolutamente ignoto dei ‘trasfertisti’, monta su un treno che parte da Napoli e arriva con loro a Reggio Emilia, dove questi uomini lavorano ai ponti dell’alta velocità.

Non c’è voce narrante di comodo. Con una ‘camera’, un’attenzione eccezionale al colore e ai toni (lividi, notturni), molti primi o primissimi piani, fa parlare le persone. Che si raccontano. Qualche volta con rabbia (“siamo carne da macello”), qualche altra con commozione (i figli che non si vedono mai), più spesso con pacatezza e qualche volta con ironia (“siamo emigrati in patria”). Dicono cose che nessun narratore saprebbe imitare: uno di loro, pacatamente, racconta che c’è un paese in Calabria dove le donne sposano solo operai che lavorano in galleria. Che muoiono presto di silicosi, e lasciano una pensione. Si aprono così scenari quasi favolosi, di favole oscure, e inimmaginabili: vite fatte di trasferte continue per un lavoro durissimo (a Napoli puoi solo lavorare in un modo, dice uno di loro: e fa il segno del rubare e quello dell’iniettarsi la droga), per pochi soldi, abbandonando la famiglia che non può trasferirsi al nord come una volta perché è un lavoro instabile, per qualche mese qui, poi magari a centinaia di chilometri, poi da un’altra parte. Tornano a casa in treno due volte al mese, per un paio di giorni, e poi via sui ponti dell’Italia del centro o del nord.

È il nuovo fenomeno della migrazione dell’Italia degli anni Duemila. Che ovviamente non ha nessuna voce né sui giornali, né tantomeno in televisione. E scarse garanzie. Ne esce, con un’accuratezza che sa anche di affetto, uno scenario fatto di cose, di uomini, di entità vere. La cifra stilistica è la discrezione, che fa sì che la ‘camera’ sfiori i volti, colga le parole, lasci intuire ciò che sta dentro e dietro quelle esperienze. È un capolavoro di serietà documentaria e di un nuovo umanesimo, che andrebbe anche questo fatto vedere nelle scuole, se ancora le scuole esistessero in questo paese distratto e stupido.

Lavorare stanca, questo il titolo del documento, è andato in onda su Rai Tre l’11 agosto, alle 23.30. Ha comunque avuto un buon ascolto, come si dice. Chiediamo alla Rai di farlo rivedere, in un mese meno dispersivo e farfallone, anche tardi. Perché, come diceva quello, non è mai troppo tardi.

  

 


Lavorare stanca

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