[Da oggi il Prof. Paolo Gallarati (Università di Torino) inizia la collaborazione con noi. Per gentile concessione de "La Stampa", pubblichiamo l'articolo da lui scritto per l'inaugurazione della Scala lo scorso dicembre]
Milano - Dopo aver diretto Ifigénie en Tauride e Armide, Riccardo Muti completa il terzetto dei capolavori francesi di Christoph Willibald Gluck con Ifigénie en Aulide (1774) in Italia meno eseguita delle altre due, anche se contiene personaggi adatti a grandi cantanti e a quelle esibizioni di prestigio individuale tanto amate dal pubblico del bel paese.
Nessun compositore del Settecento prima di Gluck aveva scolpito caratteri così vigorosi, in un dramma così incalzante, con musica così semplice e diretta nella resa dei sentimenti: era la voce della "natura" che irrompeva improvvisamente sul palcoscenico dell'Opéra, entusiasmando gli illuministi, a cominciare da Rousseau, e scandalizzando i partigiani dell'opera italiana per le sue durezze, la violenza dell'espressione, le forme che si frantumano, il declamato che s'incendia di passione e di dolore, i cori che irrompono con nuova forza ritmica, l'orchestra che, nella sua semplicità, coglie il "grido della passione", come diceva Diderot, con spregiudicata verità. Un capolavoro dunque, di immensa portata storica, le cui tracce si ritrovano ancora, non solo nell'opera francese sino a Debussy escluso, ma in Germania (Wagner, ammiratore di Gluck) e in Italia: l'influsso di Gluck su Verdi è tutto da studiare, ma, a parer mio, varrebbe la pena pensarci su.
Quest'opera, forte e godibile, ancora oggi, in presa diretta, senza le mediazioni culturali necessarie, ad esempio, per apprezzare le tragedie liriche di Lully e del grandissimo Rameau, ha avuto alla Scala-Arcimboldi una esecuzione intensa, carica di commozione e di sofferta interiorità.
Tutto si lega, spettacolo e interpretazione musicale, in una concezione unitaria. La scenografia, di Yannis Kokkos, regista e costumista, è azzeccata: gradinate di marmo bianco, alcune gigantesche polene lignee in forma di divinità, a ricordare le navi greche che, bloccate dalla bonaccia, attendono invano, nel porto dell' Aulide, di partire per la guerra di Troia. Sullo sfondo, un effetto bellissimo: un grande specchio riflette un giardino nascosto, cosicché le persone che lo attraversano sono viste dall'alto, come se gli spettatori fossero su un terrazzo e guardassero giù, per ammirare il corteo di Ifigenia che giunge tra le aiuole, circondata da canti dolcissimi e malinconici, vittima ignara del terribile ordine divino: o Agamenone immolerà la figlia sull'altare di Diana, oppure i venti incatenati continueranno ad impedire la partenza della flotta greca. Crudele verdetto che scatena nell'animo del re il conflitto, tipicamente illuministico, tra religione e natura, presenza decisiva, quest'ultima, per l'efficacia con cui Gluck ne rappresenta la "voce" nei trafiggenti appelli dell'oboe durante l'aria del primo atto.
Il baritono Christopher Robertson l'ha interpretato assai bene, questo Agamennone, e se non possiede il piglio d'un Christoff, che cantò l'opera alla Scala nel 1959, o d'un Ghiaurov, cioè di un divo che questa parte richiederebbe, lo ha reso attendibile capostipite delle grandi figure di monarchi sofferenti come Filippo II del Don Carlo di Verdi, o Boris Godunov.
Per costruire la maestà del personaggio è determinante il costume disegnato da Kokkos: parrucca bianca, un manto scuro, severo e frondoso, ma senza alcuna concessione ai fronzoli del rococò. L'equilibrio, direi perfetto, tra allusioni settecentesche e severità classica, nei costumi, nelle luci, nei materiali, è il pregio massimo di questa poetica scenografia. La regia potrebbe essere, invece, più movimentata: la recitazione è ridotta al minimo e il coro, sempre fermo, qualunque cosa canti - sfoghi di collera, inni nuziali, preghiere, scatti militareschi - non contribuisce alla resa del teatro francese di Gluck come eccitante montaggio di segmenti scenico-musicali in dialettico contrasto tra loro (altra cosa sono Orfeo e Alceste). Quei contrasti che il coro diretto da Bruno Casoni ha evidenziato, musicalmente, in modo eccellente.
E Muti? Sappiamo come dirige Gluck: con una levigatezza, un'eleganza, una raffinatezza di suoni che presuppone un lavoro capillare, essendo la partitura, nella sua semplicità, tremendamente trasparente e scoperta. Interpretativamente colpisce il tono commosso e doloroso: più che lo sbalzo epico, viene in primo piano la dolcezza dell' intimità, esaltata da tempi piuttosto lenti, specie nelle parti di Clitennestra e Ifigenia. In più punti, insomma, quest'esecuzione non è lontana da strapparci una lacrima.
Clitennestra era Daniela Barcellona, grande personalità tragica, voce splendida per qualità e stile, pronuncia francese ancora perfettibile: in Gluck la parola ha una importanza capitale, non meno del melodia, e andrebbe scolpita con la massima chiarezza per contrasto con le impennate melodiche. Violeta Urmana è una Ifigenia dolcissima, molto intensa nel suo candore verginale di agnello portato al sacrificio; Stephen Mark Brown ha invece faticato nella parte di Achille, ragazzo tenero e impetuoso, piccolo Manrico settecentesco chiamato a sguainare continuamente la spada di acuti sportivi e penetranti. Splendido il giovane Ildar Abdrazakov nella parte del severo indovino Calcante.
Il breve finale approntato da Wagner per la rielaborazione dell'Ifigenia nel 1846, e adottato qui da Muti, c'entra poco con la filologia: la dea Diana, che giunge a salvare Ifigenia canta, infatti, come la Elsa del Lohengrin, ma ci ricorda l'amore per Gluck di Wagner e chiude l'opera con un colpo di scena teatralmente magistrale (in senso wagneriano).
La serata inaugurale della stagione 2002-2003 ha avuto un grande successo per tutti, comprese le coreografie, lievemente stucchevoli, di Micha van Hoecke, e il pubblico s'è mostrato soddisfatto anche per il nuovo sistema di riproduzione digitale del libretto in tre lingue sullo schienale di ogni poltrona che il Teatro degli Arcimboldi ha adottato, primo in Italia.
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Iphigénie en Aulide
Tragédie-Opéra in tre atti
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Da "La Stampa"
del 10 dicembre 2003
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