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A torto o a ragione

di Gianni Cicali
  A torto o a ragione
Data di pubblicazione su web 01/01/2001  
L'autore di Mephisto torna, con il film A torto o a ragione, sul luogo del delitto: i rapporti tra intellettuali e potere, argomento sempre d'attualità. Vi si ricostruisce la vicenda inquisitoria di Wilhelm Furtwängler, il celebre direttore d'orchestra che fu messo sotto inchiesta, e assolto, dalla commissione Alleata per la denazificazione della cultura tedesca.

Lo diciamo subito: la pellicola di István Szabó è un fallimento drammaturgico, anche se non cinematografico (bella la fotografia dei paesaggi autunnali e degli imponenti edifici imperiali). Ma anche un fallimento per gli attori.


Harvey Keitel e Ulrich Tukur
Harvey Keitel e Ulrich Tukur

L'esecuzione della Quinta Sinfonia di Beethoven nella scena inziale in un lussuoso scenario lasciava sperare in un film raffinato e lugubremente sontuoso; la presenza di nomi di spicco preludeva a un duello di attori condotto sull'esile e ambiguo confine che separa il bene dal male. Il soggetto della pellicola era altrettanto 'invitante' e problematico. Invece il film non decolla e mostra evidenti crepe.

Indeciso tra la soluzione claustrofobica (ambientare tutto in una stanza) e la fuga verso un esterno 'storico', A torto o a ragione perde quello che doveva e poteva essere il suo nucleo principale: lo scontro tra due culture rappresentate da due uomini assolutamente diversi.

Da un lato il Maggiore Steve Arnorld (Harvey Keitel), nella vita assicuratore, sanguigno, un po' meschino, scaltro; dall'altro il mito dell'esecuzione romantica, il grande direttore, il 'genio' Furtwängler (Stellan Skarsgĺrd). Il maggiore americano è un uomo medio che non capisce la musica classica, e la odia perché non la capisce. Mira al sodo: capire come mai nessuno sapesse nulla di milioni di esseri umani uccisi con il gas. Furtwängler invece è un grande musicista che pretende di usare l'arte come baluardo alla sua pretesa innocenza. Szabó non riesce a far crescere la tensione drammatica che avrebbe dovuto scaturire dall'incontro di queste due personalità agli antipodi: un fanatico del Boogie-Woogie e un grande esecutore di Beethoven, Wagner e Bruckner (il compositore preferito di Hitler). Sapendo che Keitel interpreta un assicuratore prestato all'esercito si rimpiange l'Edward G. Robinson della Fiamma del peccato e il suo malefico diavoletto interiore che lo tormentava quando intuiva raggiri nella liquidazione di una polizza.

La comparsa 'in scena' del grande inquisito è ritardata come in un film di Welles: si lascia che gli altri parlano di lui. Tuttavia gli autori non riescono a creare un'attesa-climax, forse a causa dello scarso carisma di Stellan Skarsgĺrd, ben truccato ma solo a tratti convincente, che in alcuni casi sembra non aver 'studiato la parte'. Ad esempio, il gesto con cui dirige l'orchestra è ben lontano dal convulso e posseduto gesticolare del vero Furtwängler.

Gli altri elementi di questa geometria drammaturgica dissestata sono un tenente ebreo (Moritz Bleibtreu) assistente del maggiore americano che, innamorato della musica, parteggia per l'inquisito; e la figlia di uno degli ufficiali del fallito complotto contro Hitler divenuta la segretaria di Keitel (Oleg Tabakov). Di contorno un colonnello russo che vuole il grande direttore come trofeo di guerra, probabilmente dietro ordini pressanti di Stalin, e il secondo violino dei Berliner, delatore e vigliacco, che aveva spiato il maestro per conto del ministero della cultura nazista. L'accennato flirt tra il tenentino ebreo e la segretaria ex-nazista è un incongruente anche se realistico detour che allontana da un possibile crescendo.

Il film è tratto dal lavoro teatrale Taking sides di Ronald Harwood, andato in scena a Londra nel 1995 con la regia di Harold Pinter. Non si comprende se nella trasposizione cinematografica la regia soffra la sceneggiatura (dello stesso Harwood, indimenticato autore di The Dresser) o viceversa: non sempre accoppiate vincenti sulla carta lo sono altrettanto alla fine della gara.

La storia si perde in rivoli narrativi inutili e mal assortiti, oscillando imprudentemente tra antefatto (i campi di sterminio) e 'presente' (la Berlino distrutta). Un dilemma strutturale della drammaturgia tra Otto e Novecento, qui risolto in modo 'banalmente' cinematografico. Inoltre è sfuggito un elemento essenziale: la sottile linea che separa la figura del direttore d'orchestra dalla psicologia del dittatore. Il pragmatismo del personaggio del maggiore americano, tra il carnale e l'astuto, il bestiale e l'invidioso, è grossolanamente delineato e solo a tratti riesce a porre lo spettatore di fronte al dubbio se l'inquisito sia davvero peggiore dell'inquisitore. Il pur bravo Harvey Keitel non può sostenere il film tutto da solo e nel tentativo di colmare un vuoto espressivo scivola più volte in una recitazione ipertrofica.

La trama propone un aneddoto: Furtwängler dirige per il compleanno di Hitler. Dimostrazione della sua adesione ideologica secondo l'accusa, atto di coraggio per la 'difesa', poiché il maestro non fece il saluto nazista con un pretesto: impugnava ancora la bacchetta. Ma uno spezzone d'archivio inserito nel finale mostra Furtwängler stringere solo un fazzoletto. Lasciamo allo spettatore l'interpretazione di questo 'segno'. Il documento, però, è un interessante tributo alla potenza delle immagini, testimoni inoppugnabili e ambigue al tempo stesso di un evento.

A torto o a ragione
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