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L'utopia di Peter Sellars, un regista che rifiuta i confini del mondo

di Carmelo Alberti
  Peter Sellars
Data di pubblicazione su web 11/09/2003  
Peter Sellars, l'artista statunitense a cui è stata affidata solo per il 2003 la sezione della Biennale Teatro, è in questi giorni a Venezia, impegnato a condurre con l'entusiasmo di sempre le prove di The Love Cloud, un lavoro che si basa sulla mescolanza di tanti linguaggi espressivi, dalla poesia alla narrazione, dalla danza alla musica, che traduce in scena un delicato e malinconico poema d'amore, intitolato Meghaduta, scritto in sanscrito dal grande poeta indiano Kalidasa. Sul palcoscenico del Teatro Piccolo Arsenale il regista guida l'esibizione di due danzatori-maestri indonesiani e di una giovane allieva, convinto di agire da testimone attivo nello scambio fra artisti di varia estrazione. Né smette mai di esaltarsi nel riconoscere alla città lagunare un ruolo centrale nel sollecitare lo scambio tra uomini lontani, eppure egualmente interessati. Nello sguardo, nei gesti, nella voce di Sellars, è facile avvertire il senso più profondo della cooperazione culturale tra le nazioni del mondo: meraviglia semmai che non gli sia stato conferito ancora l'incarico di ambasciatore della pace e di promotore della convivenza tra i popoli.
Locandina del 35° Festival Internazionale del Teatro
Locandina del 35° Festival Internazionale del Teatro


La sua proposta per il 35° Festival internazionale del teatro, che si svolge dal 23 ottobre al primo novembre, è condensata nell'incrocio di quattro parole, coniugabili sullo schema di un incrocio di significato: visionaries and peacemakers – building and rebuilding, vale a dire, visionari e artefici di pace, coloro che sono impegnati a costruire e ricostruire.
Ritengo che la maggior parte delle manifestazioni della violenza provenga da un fraintendimento culturale. Nessuno può pensare che possa passare un messaggio, che possa filtrare la necessità di essere ascoltati se esiste una prevaricazione. Spesso chi non è ascoltato, ricorre alle bombe: insomma, la violenza deriva da una mancanza di comunicazione; se vogliamo che il mondo abbia più sicurezza, si smetta d'investire in armamenti, ma si promuovano azioni culturali e produzioni artistiche. Ciò implica che gli artisti divengano sempre più bravi in quello che fanno; la posta in gioco è molto alta e non si può sbagliare. Si deve ottenere qualcosa di più che sentirsi dire "questo spettacolo mi è piaciuto", oppure "non mi è piaciuto".

L'occidente guarda spesso alla cultura orientale per proporre una riflessione sulla propria crisi, ma la sua proposta si rivolge, invece, a quanti sono vittime delle tirannidi e delle dittature. Come pensa di poter cooperare con quei popoli e con quegli artisti che intendono ritrovare le loro radici per rinnovarle?
Arrivando a Venezia ho provato a guardarla con gli occhi degli artisti cambogiani che mi accompagnavano e ho capito che è una città "asiatica". Le sue architetture, le sue struttura urbane la rendono un luogo compatibile con l'immaginario dell'Asia, un ambito in cui si stabilisce una vicinanza tra le genti, come accade in India; è una città creata da viaggiatori abituati allo scambio. Ma perché si attui lo scambio, deve valere il principio della reciprocità, necessitano reciprocità e senso d'eguaglianza.
Il progetto della Biennale è positivo perché la cultura cambogiana, liberata dalla dittatura, si confronta qui nel cuore della cultura occidentale proponendo la propria visione dell'Otello. Osservavo ieri con meraviglia gli attori che toccavano le stesse pietre del tempo di Otello, all'interno di un'area militare come l'Arsenale; sono pietre che raccontano una realtà antica e paragonabile alla storia recente della Cambogia. Eppure Otello è un personaggio di fantasia; quindi, vi sono strati di realtà e immaginazione che s'intrecciano e che rimandano l'uno all'altro.
Venezia è anche un punto di contatto forte tra l'Europa e l'Africa, un luogo che rende possibile la comprensione reciproca. Ed ecco che alla Biennale presentiamo alcuni film africani, che rivelano una realtà complessa e intensa, come quella descritta nel film Allah Tantu che narra storie di abuso e di prevaricazioni nella Guinea. L'Africa si rivolge oggi all'Europa e l'Europa pone domande all'Africa: sono questioni non più eludibili che indagano sulle conseguenze dell'indipendenza e riempiono di contenuti la riscoperta delle identità. Ma non è fantastico che io mi trovi qui a studiare un testo poetico composto in sanscrito? È quello che mi piace della globalizzazione, la possibilità di agire in ogni luogo liberamente, in continua relazione con gli altri.

Può dirci qualcosa di più sul suo "workshop" orientale?
Sto a contatto con artisti meravigliosi, e comincio riunendo in una stanza uomini con cui voglio arrivare al medesimo grado di comprensione, per capire ciò che da solo non posso capire. Quanto più sono partecipi coloro che si trovano in quella stanza, tanto più è positivo il risultato che si raggiunge. Se nelle stanze dove si prendono le decisioni sulla politica del mondo, sul Pakistan, sulla Palestina, si ascoltassero i punti di vista delle popolazioni coinvolte, si troverebbero le soluzioni giuste.
E il progetto che io propongo significa proprio questo: invitare nella stanza quanti hanno interesse a condividere e accettare il risultato. I risultati possono provenire solamente da un incontro di culture, lingue, economie. E gli artisti sono in grado di mettere insieme punti di vista diversi, di far coesistere mentalità lontane per arrivare a un esito alto e condivisibile. Non si può avere sicurezza nel mondo finché non si impara a comunicare.

Eppure gli avvenimenti incalzanti di questi anni evidenziano paure e chiusure tra le genti?
A Venezia si mette alla prova la tensione del teatro per agevolare la comunicazione e lo scambio, a dispetto della paura, usata dai politici in modo cinico e spregiudicato. Chi si occupa di cultura deve mostrare che il diverso aiuta ad aprire le nostri menti, deve mostrare quanto sia positivo accogliere chi viene da un altro luogo. Conosco bene le paure e i pregiudizi. Provengo da una nazione costruita da quegli stessi emigranti che adesso respinge, da una nazione che proclama la libertà e nello stesso tempo costruisce un gran quantità di prigioni. È una contraddizione dolorosa, per uno stato che si batte per principi eccelsi, ma esprime una realtà di chiusure.
Il compito delle nuove generazioni è quello di aprire i cancelli per far entrare gli altri. Chiudere le porte significa rinunciare all'innovazione e alla crescita della società. Perciò insisto sul ruolo di Venezia, che è una città ben visibile a livello mondiale, da qui è possibile e necessario sapere raccontare ciò che sta accadendo. L'arte nasce all'interno delle grandi contraddizioni. Per me Venezia è importante perché riesce ad essere triste e felice allo stesso tempo. Più radicate sono le contraddizioni, più importante è la creazione che ne nasce. Questo è il miracolo dell'arte: potere sradicare la contraddittorietà per lasciare germogliare il nuovo che contiene in sé.

Qual è il suo giudizio sulla cultura e sulla società degli Stati Uniti?
Penso che scontiamo il predominio del dollaro, del denaro, ma i soldi non sono disponibili a sostenere le forme dell'arte; il libero mercato chiede soprattutto consumi indiscriminati e pornografia. Mi aspetto invece una buona risposta da un fenomeno come internet, che agevola i contatti e gli scambi: è una vera rivoluzione che promuove la partecipazione.

Il teatro svolge ancora un ruolo nella società contemporanea?
Non mi occupo molto di teatro, mi occupo della vita. Attraversiamo un periodo incredibile, in cui ogni evento, ogni nuova ricerca artistica durano solo un attimo. Ma, anche se una piccola frazione di quanto si sta creando riesce ad arrivare sul palcoscenico, è comunque una splendida opportunità. Quello che amo del teatro, in un'età in cui predominano i media e le tv, è il fatto che rimanga un fenomeno collaterale. Seppure non si facciano soldi con il teatro, resta una zona franca di libertà, in cui prevale il contatto tra persone vere, reali.


 

Peter Sellars al Festival Internationale di Adelaide 2002
Peter Sellars al Festival Internationale di Adelaide 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Peter Sellars, ''Per farla finita con il giudizio di Dio'', di Antonin Artaud
Peter Sellars, ''Per farla finita con il giudizio di Dio'', di Antonin Artaud

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Peter Sellars, ''Per farla finita con il giudizio di Dio'', di Antonin Artaud
Peter Sellars, ''Per farla finita con il giudizio di Dio'', di Antonin Artaud




 

 
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