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Molto rumore per nulla

di Elisabetta Torselli
  Otello
Data di pubblicazione su web 26/05/2003  
Questo Otello, diciamolo subito, ci ha deluso. Ci ha deluso innanzitutto la messinscena, "uno spettacolo essenziale nei gesti e nei movimenti, quasi minimalista", secondo il suo artefice, il grande regista Lev Dodin, di cui peraltro a suo tempo abbiamo ammirato al Comunale l'Elektra e la Lady Macbeth del distretto di Mzensk, nonché, alla Pergola, il meritatamente famoso Gaudeamus.


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Ci rifiutiamo di rubricare sotto l'etichetta - molto alla moda - di "minimalismo" (che dovrebbe essere, a rigore, il far molto con pochi mezzi) una regia che non fa quasi niente: elimina i problemi di messinscena dell'Otello di Verdi prima ancora di esserseli posti con quel coro piantato immobile ai lati della scena nei suoi abiti neri da concerto (e allora, muovere le masse in scena sarebbe massimalismo?) e si rivela incapace di definire le dinamiche drammatiche reali (pensiamo all'assoluta illeggibilità di ciò che succede nel finale del III atto); e poi se la cava con poche idee-simbolo e metafore nemmeno particolarmente felici: come il letto che troneggia ossessivamente per tre atti, ospitando, prima dell'assassinio, le trame di Jago e la progressiva disgregazione della mente di Otello; oppure l'ineffabile banalità dello strangolamento-anzi-bacio con cui Otello fa fuori la consorte.


Com'è normale in questi casi, nelle dichiarazioni della vigilia, il grande regista di turno copre le sue pochezze appellandosi a Shakespeare: che sarebbe meglio di Verdi, perché nel Bardo il coro non c'è, e poi, si sa, la scena elisabettiana era tanto nuda, tanto essenziale... tanto minimalista per l'appunto... Qui però la scena di David Borovsky, con le sue ampie losanghe di legno profilate di bianco che si aprono e chiudono a definire gli spazi dell'azione - elegante quanto si vuole, per carità, soprattutto per gli ammiratori degli arredi anni '60 - evoca con precisione, non la scena elisabettiana, bensì un'esposizione di parquet. (Ricordiamo con rimpianto l'edizione del 1980, in cui la scena di Enrico Job era di gusto non meno attuale ma sapeva evocare con fascino e rigore la Cipro veneziana del XVI secolo).


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Poi, se proprio si voleva essere minimalisti fino in fondo, di quelle coreografie scialbamente pseudoetniche da provincia teatrale sovietica dei Fuochi di Gioia si poteva tranquillamente fare a meno. Postilletta di costume teatrale: nella locandina di questa edizione figura un drammaturgo (Michael Stronin): nonostante i molti e autorevoli pareri sull'utilità della figura del Dramaturg continuiamo a non capirne le funzioni nel modo più assoluto. Certo non delude, o almeno non delude completamente, la concertazione di Zubin Mehta, che ci è sembrata attenta soprattutto alle ricchezze, alla densità, ai preziosismi, ai dettagli orchestrali della partitura: dai fieri e affilati barbagli modernisti della tempesta, al racconto orchestrale del duetto d'amore, quasi un poema sonoro parallelo alle voci, dal decorativismo squisito e arabescato della scena della serenata a Desdemona, all'orchestrazione e alle armonie della Canzone del Salice, e ai molti altri luoghi in cui il maestro concertatore sa mettere in risalto da par suo le prospettive europee, e già orientate al Novecento, di un autore che non sta "rincorrendo" Wagner perché di fatto l'ha già superato.


Ma questa contemplazione delle bellezze della partitura non esaurisce tutto, perché purtroppo qui non abbiamo a che fare con un poema sinfonico ma con un'opera di Giuseppe Verdi. Benché sicuro come sempre grazie al suo dominio tecnico formidabile, Mehta non affonda più di tanto nel dramma, e si ha quasi l'impressione che si sia preso il cast che c'era con tutti i suoi limiti, rinunciando a imprimere con incisività, anche al palcoscenico, la stessa visione dell'opera che ha saputo suscitare nell'orchestra. Poche volte ci si è rivelata con pari crudezza una questione cruciale del teatro musicale di oggi: chi è che firma l'opera in definitiva, chi è il depositario e dunque il responsabile della sua verità, il regista o il direttore?
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Aderente alla visione sontuosamente lirica di Mehta è Barbara Frittoli (Desdemona) con le sue impeccabili risorse tecniche e la bella e luminosa fisionomia vocale di soprano lirico puro, con quel quarto atto toccante che diventa tutto suo. Abbiamo invece trovato, purtroppo, inferiore alla bisogna, e disperatamente stridente con la visione che dell'Otello ha Mehta, Vladimir Galouzine, che pure oggi è, di quest'opera, il protagonista forse più sperimentato e richiesto nei maggiori teatri quando non intendano piegarsi alle saltuarie irruzioni canta-e-fuggi dell'ambitissimo divo José Cura (come avviene per un'unica recita fiorentina, quella per cui naturalmente il botteghino ha registrato più richieste). Questo Moro sembrava, ad ascoltarlo, in piena sindrome Mario Del Monaco, forzando i suoi mezzi e la fisionomia vocale naturale che ricordiamo diversissima (quella con cui cantò splendidamente a Firenze La Dama di Picche di Cajkovskij) per conseguire a caro prezzo e con immane fatica, a costo dell'intonazione e della qualità dell'emissione, un colore fosco e potente da 'tenorone'. Il risultato è un Otello velleitario e monocorde quanto naturalisticamente esagitato sul piano della prestazione attoriale. Peccato davvero; comunque, se teniamo conto del tono intenso e sincero con cui ha affrontato il grande monologo del terzo atto ("Dio, mi potevi scagliar tutti i mali") diremmo che il pubblico alla fine lo ha punito anche troppo severamente.


Molti applausi invece per lo Jago di Carlo Guelfi, forse troppi: con la precisione scolpita della dizione e la bella articolazione dei ritmi e dei metri spinge fino a dove valgono i suoi mezzi l'interpretazione, senza peraltro conseguirne la statura e il fascino, rifugiandosi anche troppo spesso in una sorta di semi-parlato. Che poi un Maggio Musicale Fiorentino non riesca più a trovare per il primo cast non si dice un Otello ma nemmeno un Cassio meritorio, è cosa che suscita vivo sconcerto. A posto gli altri, in particolare Gabriella Sborgi (Emilia) e Giovan Battista Parodi (Lodovico), efficienti come sempre orchestra e coro.


Otello
dramma lirico in quattro atti


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