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Il vascello dei sogni

di Gabriella Gori
  Ship in a view
Data di pubblicazione su web 01/08/2002  
La Biennale Danza di Venezia, diretta da Carolyn Carlson, si conferma ancora una volta uno scrigno prezioso, una delle più interessanti manifestazioni che nel confronto tra Oriente e Occidente esprime l'alto livello qualitativo dell'edizione 2002.

Ship in a view

Questa la sensazione che si è avuta nell'assistere a Ship in view, lo spettacolo del giapponese Hiroshi Koike, andato in scena al Teatro Piccolo Arsenale in prima europea e accolto calorosamente dal pubblico. Composito frutto della creatività del regista televisivo nipponico (classe 1956), vincitore del Grand Prix International Video Danse nel '94 e fautore di un Teatrodanza sui generis, Ship in a view, datato 1997, è un viaggio simbolico alla ricerca della propria identità, ma anche una fuga da sé e dal mondo, in una dimensione che ricorda la concezione 'bergsoniana' del tempo come "durata, processo fluido".

In questo lavoro Hiroshi Koike ha raggiunto, come ha sottolineato la stampa giapponese, "la pace del teatro noh" (Ship in a view è una creazione fortemente allusiva i cui elementi costitutivi sono il canto, la recitazione, la danza, la musica e una scenografia essenziale) e nello stesso tempo porta con sé il riverbero della cultura occidentale della quale si è nutrito, negli anni trascorsi in Francia, e attraverso cui plasma l'universo del Sol Levante.
Ship in a view



C'è senza dubbio la lezione di Bob Wilson dietro alla capacità di Hiroshi di contrarre e dilatare i tempi d'azione, in un'alternanza che stravolge quelli consueti della rappresentazione (lo spettacolo dura quasi due ore ma potrebbe benissimo essere reso in una), e il metodo di Jerzy Grotowski dietro la ricerca di una relazione diretta tra artista e spettatore e la concezione dello spettacolo come inquietante momento di contatto fisico-emozionale e non rassicurante esternazione di segni convenzionali. E non manca neppure l'influenza del Tanztheater di Pina Bausch nel modo di assemblare musica, movimento e parola, in una stimolante sintesi che si serve della realtà metafisica della scena per comunicare con il pubblico a livelli più profondi.

La nave argentea che, attraversando il palcoscenico, segna l'inizio e la fine dello spettacolo, è la chiave di lettura di Ship in a view, un'opera in cui i dodici bravi perfomer di Pappa Tarahumara (la compagnia fondata da Koike nel 1982 e battezzata con un nome di origine messicana cha significa meraviglia e gioia) interagiscono con macchine e oggetti di forma stilizzata, 'giocano' con ombre e luci, danzano, cantano, parlano. La scena, immersa nel silenzio e nella penombra, è quella di una città di mare degli anni Sessanta. Un luogo della realtà cui si oppone uno dell'irrealtà, rappresentato da una nave che passa lentamente e lascia il posto a un enorme palo al centro del palcoscenico dalla doppia valenza simbolica. È l'albero della nave, emblema della fugacità dei sogni e delle incertezze marine; è un pilastro piantato in terra, simbolo della solidità dei doveri e delle certezze terrestri.
Una voce piena di nostalgia, con melodie buddiste e popolari, riempie lo spazio che lentamente si anima di individui straniati, vestiti di scuro, che si muovono come automi in un'atmosfera visionaria, rafforzata dalla musica di Masahiro Sugaya, dai suoni stridenti e metallici di capannoni industriali, dalla dolce armonia delle onde e del vento che accarezzano il mare.

I gesti e i movimenti dei ballerini sono misurati, pieni di dignità e grazia nell'assumere posizioni statiche o sospese, nel ballare con un ombrello, una sedia, una ruota metallica, una bicicletta, e a questa danza nipponica di carattere plastico corrisponde (in ossequio al sincretismo culturale che è la cifra di uno spettacolo suggestivo e interessante) una danza occidentale, corposa, viscerale, visibile nei poderosi salti (i grands jetés che attraversano la scena richiamano lo stile bauschiano) o nelle legazioni concatenate. E mentre le luci ipnotiche di Yukiko Semine e i light objects di Hiroyuki Moriwaki delimitano il campo d'azione e un bagliore giallo in fondo indica il sorgere dell'alba, un venditore di soia canta, una donna mangia una mela, un uomo danza con una bambola, un altro osserva, alcuni ('bauschianamente') rovesciano dell'acqua, altri ancora accennano a passi di twist e rock'n'roll: tableaux vivants di una scena di città attratta dalla nave e dal suo eterno vagare nel mare delle promesse.

Nell'epilogo i 'danzattori', questa volta in costumi argentei di seta, passano davanti a un proiettore che, in un gioco d'ombre, riflette sul fondale le loro effigi a bordo del "vasel", carico di speranze e desideri. Ma all'improvviso il segreto è svelato: la nave non è che un modellino di carta inconsistente, simbolo dell'inutile fuga verso un 'ignoto' che non esiste. Il cerchio si chiude e all'uomo non resta che confrontarsi con l'attuale e futura realtà cibernetica e tecnologica rappresentata da una coppia di robot, uno con la testa-monitor e l'altro con il volto scheletrito.
Le luci sfumano, il grigiore torna a riempire la scena e l'atmosfera ripiomba nella più totale evanescenza.


Ship in a view
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