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Il Cantico lituano di Nekrosius

di Marina Longo
  Cantico
Data di pubblicazione su web 08/03/2005  

La corporeità è l'essenza del teatro di Eimuntas Nekrosius. Una corporeità che non si sviluppa indipendentemente dalla parola-testo, ma la avvolge e la sostanzia, la potenzia senza subordinarla. Si verifica un intreccio alchemico tra suggestioni immateriali, dei suoni verbali e delle eco musicali, e fisicità dinamica, prorompente del corpo dell'attore. Uno dei risultati più alti di questa commistione è stato l'incontro di Nekrosius con la parola di Shakespeare, che ha dato vita a sperimentazioni come Amletas, Macbetas, Otellas. Lì gli elementi assediavano lo spettacolo con una presenza, appunto, così tangibile da materializzare le ossessioni evocate dai protagonisti (l'irresolutezza logorante segnata dall'inesorabile sciogliersi di un lampadario di ghiacchio in Amletas, l'ambizione travolgente delle pietre rotolanti in Macbetas, il naufragio nella gelosia di Otellas vissuta attraverso lente infiltrazioni nelle mura oppure ondeggiamenti di una nave alla deriva). Anche il più recente Gabbiano, affidato ai giovani attori europei della Ecole des maîtres aveva mostrato come certa visionarietà del testo di Cechov potesse lasciare spazio all'improvvisazione creativa del regista, grazie anche, ovviamente, alla condivisione di una sensibilità artistica inquieta (a cui Nekrosius aggiunge l'impronta "bohémienne" di una cultura, quella lituana, geneticamente votata alla mobilità e alle contaminazioni).

 

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In virtù di queste premesse è stato forse inevitabile rimanere perplessi dell’allestimento che Nekrosius ha presentato questo inverno in Italia –tappe contemplate Roma e Ferrara–, ovvero un adattamento del Cantico dei cantici, che pure è uno dei testi biblici più duttili (con avvedute concessioni ecclesiastiche alle interpretazioni profane dell’amore che vi viene descritto). Gli accostamenti che si leggono nei versetti (attribuiti a Salomone) tra i dettagli fisici dell’amato/amata e creature, colori e profumi arcaici innescano regressioni mentali a paesaggi incontaminati che il teatro non può che amplificare, esaltare. E dunque la scelta di Nekrosius di rinunciare a una «sceneggiatura di ferro», a un testo classico conclamato, per costruire un testo originale, nuovo, apparrebbe un rischio calcolato.

In realtà l'operazione non è completamente riuscita. Il pensiero dominante di Nekrosius (e forse di tanta cultura di matrice russa), ovvero la difficoltà se non impossibilità di un rapporto uomo-donna in cui l'amore non sia anche sopraffazione, tormento, distruzione (esemplare in Otellas) si insinua anche nelle atmosfere edeniche del Cantico, e improvvisamente, dopo appassionate dichiarazioni dei due amanti, la donna torna a essere la vittima millenaria di violenza ingiustificata, assalita e lapidata da viaggiatori di passaggio. La diade maschile-femminile si ricompone a fatica, il trasporto non è più incondizionato, lo spettatore percepisce una ferita non più rimarginabile, che sembra essere il destino di ogni essere umano, darsi solo a metà o totalmente ma a rischio della propria stessa esistenza. Ma appunto questa parabola di Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso Terrestre è una sovracostruzione sull'originale biblico, che segna pericolosamente il distacco dello spettacolo dalla parola-testo.

La materialità tragica e furiosa prima si nutriva del rovello dei monologhi e dialoghi shakespeariani, o delle infinite evocazioni quasi acusmatiche delle parole, che miracolosamente passavano anche nella traduzione linguistica, come se la voce dell’attore invitasse a trovare il suono e l’immagine universali dietro il segno convenzionale, arbitrario della lingua. Qui invece la parola si chiude nell'aforisma sacro, nel mistero inaccessibile all'uomo, che rifrange i corpi e le azioni in un universo parallelo. E succede che lo spettacolo resta un godimento sinestetico, ma ha la sottile angoscia di un'acrobazia senza rete, sempre teso sul filo del tempo, che non aveva mai rappresentato un impedimento fisico per il pubblico (in un’intervista dello scorso dicembre Nekrosius ha ricordato: «non governo il tempo ma è il tempo che conduce me. Noi dipendiamo e apparteniamo al tempo»). Due ore risultano paradossalmente troppe per chi ha affrontato le oltre quattro ore quasi canoniche negli spettacoli del regista, proprio perché si è rotta l'incantevole ambivalenza materialità-immaterialità del suo teatro.

Gli attori (che hanno ormai composto una compagnia-famiglia per il regista, nella sede stabile di Vilnius) sono ancora una volta straordinari, prima fra tutti Aldona Bendoriute, e sanno creare momenti visivi di altissima liricità (come lo scambio di baci che percorre diagonalmente l'intera scena, o la parata di lance, a metà fra Paolo Uccello e Ejzenstejn). I costumi di Nadezna Gultiajeva sono nella consueta semplicità con un occhio al moderno, come se in fondo la storia del popolo d'Israele fosse un po' anche quella dei contadini baltici. Le musiche di Mindaugas Urbaitis alternano le sonorità schiaccianti dell'organo a quelle languide del pianoforte, giocando con le luci ora devotamente soffuse ora abbaglianti scelte da Audrius Jankauskas e la scenografia di Marius Nekrosius. La sintesi perfetta di questi elementi è proprio la scena finale, quando scomparsi gli uomini si offre alla vista degli spettatori una sorta di città ideale sacra, con cupole che rievocano le chiese ortodosse stagliate nella luce dorata con il tripudio sonoro dell’organo: Dio si erge sull'umanità, immutabile sulla mutevolezza peccaminosa dei mortali. Ma questa ieraticità poco si addice a Nekrosius, e soprattutto al suo pubblico; quello ferrarese del sabato sera segue attento e rispettoso, ma forse come noi si domanda cosa c'è che non ha funzionato.

E poi (sia detto per inciso e con il dovuto rispetto per i colleghi ferraresi) perché confinare questa novità comunque coraggiosa a ben quattro serate estensi, dopo l'anteprima d'obbligo a Roma, disdegnando le tante città di illustri tradizioni teatrali, anche di avanguardia?





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