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Il fascino del Mediterraneo: 2004 Creuza de Mä

di Michele Manzotti
  Mauro Pagani
Data di pubblicazione su web 03/03/2005  

Dal violino e dal flauto con cui si esibiva nella Premiata Forneria Marconi, al bouzouki e all’oud scoperti anni fa e oggi fedeli compagni di palco. Mauro Pagani ha legato il suo nome di musicista e collaboratore a quello di tanti artisti: prima nel rock poi nella canzone d’autore. Ma colui a cui resta più legato è Fabrizio De André, grazie ad un disco che nel 1984 cambiò la storia della musica popolare italiana. Si chiamava Creuza de Mä, in genovese la mulattiera che porta al mare. Proprio la lingua del capoluogo ligure era protagonista assoluta dell'album, verso il quale si rivolse subito l'attenzione del pubblico, della critica e dei colleghi musicisti, anche fuori Italia. La grande fortuna di quell'album è testimoniata dalla voglia che ha animato Pagani a rileggerlo venti anni dopo con 2004 Creuza de Mä, stampato da Officine Meccaniche e distribuito dalla Edel. Rileggere un classico non è un'impresa facile. Per questo abbiamo chiesto a Pagani cosa lo avesse spinto a misurarsi con una parte importante del suo passato musicale.   

Mauro Pagani
Mauro Pagani


Lei è un musicista che ha sempre voluto guardare avanti, e il suo precedente album Domani lo dimostra in modo particolare. In questo caso al grande pubblico può sembrare che lei abbia voluto fare un passo indietro, non tanto stilistico quanto affettivo. Cosa c'è di vero?
Per me questo disco è stato molto importante. In fondo mi ritengo un musicista molto fortunato, voglio continuare a fare questo mestiere e non l'ex-popstar. Già quando ero parte della Premiata Forneria Marconi ebbi un colpo di fulmine per le sonorità del Mediterraneo. Nel 1974-75 frequentavo Moni Ovadia che si interessava di musica tradizionale, come quella balcanica e le sue derivazioni turche. Con Demetrio Stratos ho condiviso l’amore per le sonorità bulgare che allora non erano ancora conosciute. I dischi erano rari, ce li prestavamo tra noi. Quindi avevo conosciuto il Canzoniere del Lazio, il gruppo di musicisti romani che si interessava di musica popolare; e ricordo anche Roberto de Simone in piena attività. C'era tutto il segnale di recupero della cultura italiana. In fondo la grande forza di questa nazione è quella di essere formata da mille ''città stato'' che di malavoglia si sono unite insieme: basti pensare alla meravigliosa varietà della lingua italiana che cambia appena attraversiamo un ''torrentello''. E' una cultura estremamente creativa in cui i grandi temi sono quelli che  derivano dalla Grecia antica, dalla Magna Grecia. Ed ero incuriosito da ciò che definisco ''i figli illegittimi della dominazione turca'' che sono rimasti nei Balcani 400 anni, oltre ai paesi del medio Oriente, Libano, Palestina, Africa del Nord, con la loro complessità e lo scontro continuo tra la cultura autoctona e quella della dominazione turca o araba. A noi tutti questo era piaciuto tantissimo e nel 1978 avevo buttato giù materiale per un primo disco, che più di un album finito era una sorta di manifesto di intenzioni.

Poi nei primi anni '80 l’incontro con De André. Una svolta anche di tipo musicale?
Mentre le mie esperienze stavano incominciando a maturare mi successe, alla mia prima produzione, di lavorare con il più grande di tutti: Fabrizio De André. Questo conferma che sono stato sempre fortunato. All'inizio scappavo di casa per suonare, soprattutto nelle balere. Poi incontrai quattro ragazzi (la PFM), ci  mettemmo insieme e il primo disco andò in vetta alla classifica italiana per poi entrare nella classifica inglese ed americana. Conosco tanta gente brava che non è arrivata così in alto: sono molto grato alla sorte. La stessa cosa è successa con De André. Mi sono trovato all'inizio di un altro evo della mia vita: era la prima volta che affrontavo canzoni. L'aspetto compositivo dei gruppi è particolare: i musicisti rock scalpitano, c’è voglia di suonare (assoli, rullate di batteria) e quindi è necessario tenerli a bada. Con la PFM eravamo quelli degli assoli. De André invece metteva nei brani solo ciò che era strettamente necessario per ristabilire le proporzioni. Ed ho cominciato a capire cos'è la melodia.

Mi ricordo che una volta raccontava di un De André perfezionista, un uomo dall’approccio non semplice.
Fabrizio era un uomo di grande talento, ma difficile e con una vita un po' sregolata che non influiva positivamente sul lavoro. In pratica aveva tre ore di autonomia nella parte centrale del pomeriggio, in cui occorreva fare tutto il necessario. Per il resto della giornata bisognava difendere il lavoro svolto, perché Fabrizio non aveva più reazioni equilibrate. I dubbi diventavano giganteschi, i malumori abissali, le euforie pericolose. Era molto difficile. Ma al tempo stesso ho imparato molte cose fondamentali che ora sono alla base del mio lavoro. Come affrontare una canzone: c'è un interlocutore che racconta una storia od una sensazione. E la canzone è proprio questo: cosa dice, dove e come. Non si può prescindere da questi elementi.

Che differenza c'era con l’esperienza rock?
Nel rock scrivevamo il pezzo,  poi bisognava cantarlo; le parole erano un pretesto per utilizzare la voce: diventavano centrali nostro malgrado, senza un'idea vera. Quelli rock sono stati i primi pezzi che ho scritto da solo. Con la PFM scrivevamo tutti insieme: pur se importante, il mio ruolo era più nascosto. Le composizioni più note del primo periodo PFM erano di Franco Mussida e Flavio Premoli. Io curavo  la continuità stilistica e scrivevo i testi, talvolta prima della musica come nel caso di Storia di un minuto. Quindi per il lavoro con Fabrizio, dove l'attenzione a ogni parola era maniacale, ero ben predisposto: avevamo in comune la formazione classica. Avevo fatto un buon liceo: la mia generazione ha affrontato l’esame di maturità con i tre anni di programma e la commissione esterna. Inoltre avevo studiato con molta attenzione il greco e il latino. Ma è stato quando ho cominciato a scrivere i pezzi che è giunta la mia maturazione: sai quando ci sono i periodi giusti.  Come quando si dice ''tempo buono e vento in poppa''. Io ero pronto per ripartire.

E la genesi dell’album?
Dentro a Creuza de Mä c'era tutta la mia formazione successiva alla PFM: nel 1981 ho conosciuto Fabrizio e abbiamo cominciato a lavorare. Abbiamo scritto Creuza a partire dall'82 per registrarla nel luglio 1983 e farla uscire nel 1984. Più precisamente la musica è stata scritta in due mesi, poi abbiamo passato altri sei mesi in sala di incisione a cercare di difendere la pulizia e l'essenzialità dei provini. Questi ultimi erano scritti in una lingua maccheronica perché il progetto originale non doveva essere in genovese: doveva essere la lingua di un marinaio partito da Genova per un tragitto nel Mediterraneo. La musica in fondo non era genovese, né greca, né turca, ma un insieme di vari elementi. E anche la lingua doveva essere trattata in questo modo. Poi c'è stata la grande intuizione di Fabrizio con il genovese

De André aveva sempre cantato in italiano: come mai questa necessità?
Genova era la sua grande nostalgia ed era anche l'arma che usava per difendersi. Quando gli facevano girare le scatole, cosa che succedeva spesso, diceva alla moglie: ''Belin, basta! Dori andiamo e torniamo a Genova''. Dori Grezzi lo guardava negli occhi e diceva: ''Guarda che lì non abbiamo nemmeno la casa''. Genova era una sua categoria mentale, un porto ideale. La città gli ricordava i periodi della giovinezza con tutti gli amici, i luoghi dove era cresciuto. Quindi in realtà la scelta del dialetto è stato anche un rifugio. L'intuizione è stata fantastica. La musica era un’invenzione e altrettanto doveva essere la lingua; ma De Andrè capì che probabilmente il disco sarebbe diventato un'operazione letteraria, distaccato dal pubblico. Il dialetto ha dentro un senso di verità e spontaneità che la lingua non avrebbe avuto. Quando feci i provini gli piacquero molto e si schierò a loro difesa. Li difese, per assurdo, proprio da me e dalla mia inesperienza, impedendomi cioè di rovinarli dalla voglia di essere musicista puro. Perché se li avessi suonati davvero come pensavo io, li avrei ''suonati troppo'', con molti orpelli. Però è stata la base da cui sono ripartito per affrontarlo nuovamente.
 

Mauro Pagani
Mauro Pagani


Veniamo dunque a Creuza 20 anni dopo…
Il fotografare la realtà aveva caratterizzato (e salvato) il disco in un certo modo. Dall’altro lato aveva impedito che entrassero delle componenti che secondo me già allora dovevano entrare, specialmente un po' più di fisicità in alcuni pezzi. Creuza ha la forza che hanno alcuni grandi dischi: nel momento stesso in cui escono sono già fuori dal tempo, sono già classici. Creuza inconsapevolmente aveva già tutto questo, ma la sottile ironia e il velo di distacco gli ha tolto alcune cose che ci dovevano essere. La fisicità, come dicevo prima, è tipica della cultura popolare con il meccanismo dell’improvvisazione, la trance, la partecipazione collettiva. In Creuza  i pezzi che dovevano avere questo segno più di altri come ad esempio Jamin-a e A-dumenega,  nascevano nella mia testa come balli popolari. Bisogna aggiungere che quando abbiamo fatto il disco, lo abbiamo trattato quasi come un romanzo d’avventura, di ambientazione esotica, scritto da due sognatori che non avevano mai viaggiato. In questo disco dedicato al Mediterraneo tutti i musicisti erano italiani, non ce ne era uno straniero, non c'era l’interscambio di oggi. Eravamo come due Salgari. Oggi avevo bisogno di attualizzarlo. Petroliere, rifiuti galleggianti, navi che pattugliano, barconi di clandestini, guerra, sono state mille tentazioni di indurirlo. Ma sono riuscito a mantenere il meccanismo onirico nonostante sia un disco più suonato. Per questo ho voluto che per metà fosse eseguito dal vivo (registrazioni a Siena, durante la rassegna Città Aromatica): doveva tornare la fisicità in certi pezzi che suono da 20 anni. Più li suoni più li metti addosso. Inoltre sono tre anni che non sento la Creuza originale, non volevo fare confronti. Sono passato su quello che ricordavo confidando che la memoria avesse fatto una selezione: quello che volevo tenere e quello che volevo aggiungere. Poi ci sono dentro voci arabe, oud e altri stumenti che allora non avevamo la possibilità di inserire. Dopo 20 anni l'ho potuto fare.

Quali sono le novità del suo disco?
Nel 1984 avevamo ascoltato il lavoro di una ricercatrice greca, Donna Samiou: un suono affascinante di cornamusa macedone (una canna sola e un bordone). Era una cosa evocativa che ci dava l'idea di alba, di inizio, ma non avevamo trovato al momento qualcuno che la suonasse. Mandammo una lettera in Grecia per chiedere i diritti e metterlo così all'inizio del disco. Stavolta c'è il cantore israeliano di una sinagoga, un controtenore fantastico che ha preparato una preghiera senza parole. L'inizio del disco (Al Fajr) vuol dire l'alba in arabo. La preghiera senza parole è la cosa più comune che tu possa sentire nel Mediterraneo: quando arrivi all'alba in un porto senti sempre qualcuno pregare. Dopo 20 anni il meccanismo è lo stesso, la funzione uguale; stavolta è tutto vero. Degli altri inediti c'è Mégu Mégun (che doveva far parte dell’album Nuvole) figlio di frammenti nati da Creuza e poi c'è un brano che si chiama Quanta Sabedes su un testo galiziano, molto antico. Le Cantigas de amigo erano le prime cantate profane: un genere femminile, dove le donne cantavamo la lontananza del proprio amore. Ho unito i testi di due cantigas, che tra loro sono simili, e conosciutissime in Galizia e in Portogallo, e così ho eseguito un contrafactum come era prassi nel Rinascimento:  ho preso il testo e l’ho musicato nuovamente nel 1981. Poi per caso il pezzo è finito nel film Sogno di una notte di mezza estate di Gabriele Salvatores. Fabrizio si era arrabbiato tantissimo: ''Belin, sei pazzo'' mi diceva. Stavolta è come se avessi fatto ammenda.

Dopo l'alba (Al Fajr), il disco si chiude con Neutte..
E’ l’unico inedito vero, tra  progetti che non avevamo mai realizzato. Già Fabrizio era pigro e il disco ci era costato una grande fatica. Pensi che ho consegnato il disco il 23 dicembre ed il 25 mi sono messo a letto con una broncopolmonite che mi ha messo fuori uso tre mesi. Ero spossato, il primo virus che è passato mi ha messo a terra. Per fortuna nel disco siamo riusciti a lasciare la serenità iniziale, ma ci è costato tanto. Tra le cose che volevamo fare c'era quella di musicare frammenti di lirici greci, arabi e altre civiltà. Sono stato affascinato dalla storia di Alessandro Magno partito dai Balcani e arrivato in India dichiarando tutti cittadini dell'impero, con gli stessi diritti e libertà di circolazione. Ha forzato migliaia di ufficiali e soldati a sposare donne persiane, e la cultura persiana è stata per la cultura greca quello che la cultura greca è stata per i romani. Questo bellissimo frammento è del poeta Alcamane, vissuto a Sparta nell'ottavo secolo avanti Cristo.

Questo è stato anche il primo disco di una nuova etichetta che ha deciso di fondare
Ripeto ciò che ho detto prima: io sono stato un musicista fortunato. Oggi però il mondo della discografia è totalmente diverso. Il fatturato dell'intera industria discografica è per grandissima parte in mano a quattro major che pensano più ai profitti che a seguire gli artisti. Specialmente i giovani non hanno possibilità di crescere. Il pubblico deve spendere prezzi sempre più alti per acquistare un disco sul quale grava il 20 per cento di Iva a differenza del 4 per cento per i libri. Ma non per questo giustifico la masterizzazione selvaggia; che non è fatta dai ragazzi, come spesso si crede, sbagliando, ma da gente con tanto di lavoro che si permette di togliere la fonte della sopravvivenza ai musicisti. Per questo va recuperato un circuito virtuoso, un atto di fiducia reciproco tra musicista e pubblico. Questo lo si può fare attraverso un prodotto di artigianato, di creatività. Elementi che sono  alla base della nostra cultura.


 
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La copertina dell'album ''2004 Creuza de Mä''
La copertina dell'album ''2004 Creuza de Mä''

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Mauro Pagani
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Fabrizio de André e Mauro Pagani
Fabrizio de André e Mauro Pagani




 

 
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