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In assenza di ascolto

di Gherardo Vitali Rosati
  La festa
Data di pubblicazione su web 18/03/2004  
Un ritmo incalzante, scandito da battute brevissime caratterizza il lavoro di Spiro Scimone, egregiamente rappresentato con la regia di Gianfelice Imparato. Debuttato nel 1999 a Baglio di S. Stefano, lo spettacolo è prevalentemente imperniato sul testo che è stato il primo lavoro in italiano di Scimone: dopo il messinese in cui aveva scritto Nunzio (1994) e Bar (1997) l'attore e drammaturgo siciliano ha deciso di tentare il cambiamento di lingua, che ha poi mantenuto con Cortile  (2004). "La lingua teatrale è una sola - ha affermato nel corso del convegno Lingua e dialetto nel teatro contemporaneo, tenutosi il 12 marzo al teatro Metastasio di Prato - non esiste di per sé, bisogna inventarsela". Chiaramente però il registro linguistico condiziona il contenuto: eliminando la fisicità tipica del dialetto, con l'uso di una lingua altra si accentua il non senso delle parole che si richiama esplicitamente al teatro dell'assurdo. "Beckett è il più grande drammaturgo del secondo novecento a cui mi sono ispirato", afferma Scimone .

Con l'ausilio di una lingua nuova si arriva quindi a creare dialoghi surreali, basati sulla negazione della caratteristica necessaria alla comunicazione: l'ascolto. Ognuno parla senza considerare le risposte dell'altro, proseguendo sul proprio binario: "Com’è il tempo?"/ "C'è il sole."/ "Piove?" /"C'è il sole"/ "Vedi se piove". La verità sfugge, le parole che dovrebbero testimoniarla divengono sempre più eteree, si svuotano del loro significato; nessuno ascolta il suo interlocutore: "Vuoi un po' di latte?"/ "Voglio il caffè [...]"/ "Ti metto un po' di latte". Sull'assenza di ascolto si sofferma a lungo l'autore dicendo che se si cominciasse a considerare le risposte degli altri anziché sentire solo le nostre spesso errate supposizioni molti problemi sarebbero evitati. Ma non si può ridurre solo a questo il nonsense di La Festa: anche chi pronuncia quelle parole lo fa con totale disinteresse verso il loro significato; la madre dice "non mi voglio ubriacare" e poco dopo "stasera ci dobbiamo ubriacare", la fiducia reciproca non esiste, non si crede al figlio quando dice di non aver bevuto né al marito quando parla del suo lavoro.

Dietro l'assenza di senso delle parole si nasconde evidentemente la ben più grave assenza di senso nelle relazioni familiari: senza più fiducia e ascolto i tre rimangono estranei, non sanno mai quello che realmente facciano gli altri durante il giorno, si spiano a vicenda ma non riescono comunque a capirsi. La madre cerca invano di moderare i rancori fra padre e figlio, difende Gianni con il padre ("non era ubriaco"), ma poi lo rimprovera ("eri ubriaco"), parlando col marito afferma di volere la torta con le fragole, col figlio dice che la vuole come piace a lui, al cioccolato. Ma alla fine si comprerà da sola il regalo per l'anniversario di matrimonio, e la torta con la candelina rimarrà intatta mente l'ubriacatura di cui si è tanto parlato si manifesta in scena, unico gesto possibile per festeggiare.

Una situazione tragica dunque raccontata con toni leggeri che tengono sempre vigile l'attenzione dello spettatore pur senza altri strumenti oltre al testo. I personaggi mantengono sempre le stesse posizioni, come marionette che debbano solo dire le proprie battute: la madre con le mani incrociate, il padre con la schiena chinata indietro, il figlio appollaiato per terra. La scena, realizzata da Sergio Tramonti, è sgombra, non volta a rappresentare ma semplicemente a suggerire gli oggetti: così abbiamo delle ciotole al posto delle tazzine, delle cassette da frutta invece dei piatti. E per andare in cucina ad aggiungere lo zucchero basta chinarsi verso la credenza e rimanere immobili qualche secondo, il pubblico capisce, e apprezza.


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