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In nome della libertà

di Roberta Carnevale
  La morte di Danton
Data di pubblicazione su web 15/04/2004  
Spettacolo interessante ed emozionante quello del regista macedone Aleksandar Popovski, attualmente direttore del Teatro Nazionale di Skopje, che ha portato sulla scena uno dei più grandi capolavori del teatro tedesco, La Morte di Danton, composto da Georg Büchner nel 1835, quando l'autore, allora ventiduenne, era impegnato in un'intensa attività rivoluzionaria nell'Assia.


Fulcro tematico dell'opera è il contrasto tra Robespierre e Danton. Agli ideali rivoluzionari del primo, fondati su un ascetico e repressivo concetto di Virtù e sulla necessità del terrore per portare a compimento la Rivoluzione, si contrappone la visione dantonista di uno stato repubblicano ideale privo di ogni tipo di imposizione (morale, religiosa, politica) in cui ognuno "possa godere a modo suo, purché nessuno goda a spese di un altro o lo disturbi nel suo personale godimento". Tuttavia il contrasto non è solo di tipo politico ma anche etico. Allo spiritualismo e all'ascetismo di Robespierre, dai tratti apertamente religiosi e dogmatici, si contrappone il sensualismo materialista di Danton, il cui comportamento edonista viene denunciato da Robespierre come "Vizio": "e in certi momenti il vizio diventa alto tradimento".

L'interpretazione di Aleksandar Popovski si concentra proprio sull’opposizione tra Virtù e Vizio e sugli interrogativi che essa solleva: chi ha il diritto di decidere cosa sia "vizioso"? Se, come afferma Camille (con una battuta che era originariamente di un altro dantonista, Hérault), "siamo tutti dei folli", chi ha il diritto di imporre all'altro la propria personale follia? È legittimo farsi "poliziotto del cielo" in nome degli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza? Il tentativo, riuscito, di Popovski è quello di estrapolare tali interrogativi dal contesto della Rivoluzione Francese e conferire loro valenza universale, dunque anche attuale. La domanda di base riguarda la legittimità della violenza e della morte in nome di alti ideali, quali appunto quelli di Liberté, Egalité, Fraternité, parole "pericolose" che Robespierre (Cristian Maria Giammarini) scrive sul palco usando sabbia rossa mentre Saint-Just (Roberto Latini) recita la sua apologia della violenza e dello sterminio in nome della Rivoluzione ("La Rivoluzione fa a pezzi l’umanità per ringiovanirla. L'umanità sorgerà dal bagno di sangue con membra possenti").


Nonostante l'interpretazione di Popovski, giustificata dal testo originario, tenda ad attirare la simpatia del pubblico sul personaggio di Danton (Filippo Timi), il contrasto con Robespierre non si risolve in una lotta tra "eroi positivi" ed "eroi negativi" ma viene mostrato in tutta la sua ambivalenza e contraddittorietà. Entrambi i personaggi sono in preda a dubbi e contraddizioni e, in fondo, non fanno che, più o meno consapevolmente, "mettersi in posa", recitare una parte. Tale aspetto del dramma büchneriano viene reso in modo magistrale tramite determinate scelte metateatrali in cui l'attore 'recita' e allo stesso tempo 'si compiace' del proprio recitare e, così, lo smaschera.

Ad accentuare il carattere universale dell'opera sono stati tolti tutti i riferimenti storici, sia dal testo che dalla scena, ed è stata scelta una traduzione (di Alessandro Berti) dal forte taglio contemporaneo, che, pur rimanendo sostanzialmente fedele al testo, presenta tuttavia alcune soluzioni decisamente criticabili. Costumi e scenografia (Angelina Atlagic) hanno un forte carattere simbolico, talvolta forse un po' troppo esplicito: il bianco e il rosso sono quasi gli unici colori presenti in scena, se si eccettuano i colori naturali e sbiaditi dei vestiti del popolo. Il rosso rappresenta palesemente il sangue di cui si sono macchiati i protagonisti della Rivoluzione, il bianco è il colore dell'ideale, della purezza divinizzata da Robespierre, ma anche del sudario, dunque della morte. Così i protagonisti della Rivoluzione sono vestiti di lunghi cappotti bianchi che danno ancora più risalto ai particolari rosso fiammante: le scarpe di Robespierre, l'interno del cappotto di Danton, il guanto di Saint-Just. Ma non è solo la simbologia del colore ad essere sfruttata: le maniche troppo lunghe dei cappotti, ad esempio, si possono leggere come l' 'incarnazione' scenica delle parole di Danton: "è bene che la durata della vita venga ridotta un poco, la giacca era troppo lunga, le nostre membra non potevano riempirla tutta".

La scenografia è essenziale, suggestiva nella sua semplicità: due pannelli in legno chiaro, uno per la parete di fondo, l'altro per il pavimento, formati ciascuno da due parti scorrevoli che, aprendosi e chiudendosi, permettono numerose variazioni sceniche. Molto si gioca con gli elementi naturali: l'acqua, simbolo ricorrente del dramma di Büchner che si 'concretizza', letteralmente, in un canale lasciato scoperto, a seconda della scena, dai due pannelli scorrevoli del pavimento; la sabbia, rossa, in un asse orizzontale scavato nel pavimento, che rappresenta di volta in volta il sangue delle vittime della Rivoluzione, la Francia insanguinata, la Rivoluzione stessa.

Decisamente belle e di grande suggestione alcune scelte di regia che mirano a dare corpo alle forti immagini del linguaggio büchneriano e si fanno efficaci interpreti della concretezza espressiva che caratterizza lo stile dell'autore tedesco: così, ad esempio, le parole di esaltazione della virtù e della purezza pronunciate da Robespierre sono accompagnate dal rumore dell'acqua smossa da sei uomini a torso nudo che lavano e sbattono teli bianchi per poi usarli come fruste contro la schiena di Robespierre, a sottolineare il parallelismo, da lui stesso tracciato, tra il proprio ruolo sacrificale e quello di Cristo. Bello anche il movimento in avanti della parete di fondo in cui sembra materializzarsi quel senso di claustrofobia espresso dai personaggi del dramma nelle scene della Conciergerie (così Danton: "le pareti mi si serrano addosso finché saranno strette come una bara"). Di grande potenza anche la muta e allo stesso tempo gridata autodifesa di Danton davanti al tribunale rivoluzionario. Evidente è la ricerca di un forte impatto emotivo, impatto spesso potenziato dalla musica composta da Kiril Dzajkovski. Tuttavia, l'effetto di potenziamento della carica espressiva raggiunto tramite l'accompagnamento musicale appare spesso eccessivo e quasi ridondante. Interessante è invece il tentativo di tracciare un parallelo tra il contesto del dramma e la realtà attuale, in particolare dell'Europa sud-orientale, proprio attraverso la musica e le sue suggestioni balcaniche.


Notevoli le prove attoriali, in particolare di Filippo Timi e Cristian Maria Giammarini. Tramite una recitazione dinamica, corporale e carismatica, che cerca costantemente il contatto con il pubblico, Timi ci rende l'immagine di un Danton inquieto, volubile, contraddittorio – che corteggia la morte e allo stesso tempo ama la vita, che cerca il godimento dei sensi e contemporaneamente la comunione spirituale con la moglie, un uomo cinico, disilluso e provocatorio che alterna momenti di "posa" e autocompiacimento a momenti di disarmante sincerità. Più sobria e rigorosa, ma altrettanto convincente, la performance di Giammarini che delinea con abilità il suo personaggio sottolineandone le ambivalenze e i dubbi.

Meno convincenti le protagoniste femminili, Fabrizia Sacchi, nel ruolo di Julie, e Lorenza Sorino, nel doppio ruolo di Marion e della Morte-Libertà, figura di pura invenzione del regista. Occorre però sottolineare che la scarsa credibilità dei personaggi femminili non è forse dovuta solo alla recitazione ma è già insita nella rielaborazione testuale attuata da Popovski. Popovski elimina infatti il personaggio della moglie di Camille, Lucile, che ha, invece, un'importanza fondamentale e che chiude il dramma con quella che Celan ha definito "das Gegenwort", la "parola contraria". La figura di questa giovane donna, parente di Ofelia, che impazzisce quando il marito viene incarcerato, e che oppone al mondo il suo grido di ribellione al dolore, viene "inglobata" dalle altre figure femminili, che si trovano a recitare le sue battute: l'effetto raggiunto è una certa perdita di credibilità e spessore da parte di queste ultime, in particolare di Julie, che, nel dramma di Büchner, si differenzia fortemente da Lucile, e che, nell'interpretazione di Popovski, diventa una sorta di ibrido tra i due personaggi.

Il pesante intervento sul testo non riguarda solo i personaggi femminili ma, in genere, l'intera opera: molte sono le figure eliminate, le battute 'passate' da un personaggio all’altro, le scene tagliate o 'dislocate'. La rottura della successione scenica originaria non sembra tradire, tuttavia, l'essenza del testo, dal momento che lo stile büchneriano è in effetti caratterizzato da un susseguirsi di scene 'indipendenti', non funzionali l'una all'altra ma quasi dotate di vita a sé stante: ogni scena sembra gravitare su sé stessa e si carica di forte potenza drammaturgica – un aspetto che tanto ha influito sul dramma tedesco del '900. Anche l'eliminazione di alcuni personaggi e di numerosi passi ha l'effetto positivo di sintetizzare ed alleggerire il testo e potenziare l'espressività drammatica delle singole scene. Peccato dunque solo per la povera Lucile e per il finale, che strappa un sorriso al pubblico con l'allusione a Napoleone ma che neutralizza completamente la chiusa originaria del testo di Büchner ossia la scena dell'esecuzione e l'arresto di Lucile, "in nome della Repubblica", nel momento in cui la donna grida: "Viva il re!"


La morte di Danton
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