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Dal Mahabharata all'asceta Utanka

di Gherardo Vitali Rosati
 
Data di pubblicazione su web 10/05/2004  
Una delle caratteristiche strutturali più studiate del Mahabharata è forse il forte ruolo assunto al suo interno dalla figura del narratore. Innanzi tutto perché nello spettacolo di Peter Brook non si trovava una presenza semplice ma composta da un terzetto che durante tutto lo spettacolo dava vita ad un racconto dialettico; Vyasa veniva spesso interrotto dal bambino che lo ascoltava o dal dio scriba Ganesha per rispondere ad interrogativi ancestrali come "Perchè c'è la guerra?" "La terra è stata salvata?". Dal loro dialogo si creava una distanza fra lo spettatore e la narrazione che permetteva agli interpreti di prendere le distanze dal loro racconto.
Lo stesso sceneggiatore Jean-Claude Carrière, due anni dopo il debutto dello spettacolo ad Avignone nell'85, ricordava il suo travaglio alla ricerca di un principio drammaturgico che potesse sostenere l'intera impalcatura del poema epico: "L'ho cercato a lungo e finalmente una notte è arrivato". Così quando ormai aveva perso la speranza, alle tre del mattino, a casa di amici gli si presentarono alla mente i primi venticinque minuti di spettacolo: "Ho visto il bambino e l'autore della pièce; l'autore domanda: "Bambino, sai scrivere?" e il bambino risponde: "No, perchè?" e l'autore: "Perchè io cerco qualcuno che scriva tutto ciò che so" e subito entra Ganesha, il dio scriba".
Anche Brook nella premessa al testo dello spettacolo si soffermava sulle possibilità aperte dalla figura del narratore: mentre in uno spettacolo di teatro all'italiana in ogni scena il tempo scorre come quello reale ed eventuali salti sono possibili soltanto quando gli attori non sono sul palco, con il narratore si può accelerare o rallentare il tempo in ogni momento, riuscendo così ad eliminare le azioni superflue per concentrarsi su quelle necessarie. E poi aggiungeva "Credevamo che nessun attore potesse direttamente recitare Krishna, per questo Bénichou fa Ganesha che fa Krishna dentro una storia di Vyasa".


Vent'anni dopo viene ripreso lo spettacolo con un tentativo di sintesi che ne mantenga inalterate le caratteristiche principali. Unico attore in scena è Maurice Bénichou che entra a passi lenti sormontato dalla maschera elefantina di Ganesha: il dio scriba si dirige verso il tappeto centrale onnipresente negli spettacoli di Brook, si siede al cospetto del suo immenso libro per iniziare il tremendo racconto "il sole si levò sopra una distesa di cadaveri...". Ma subito incontriamo Krishna che lasciando il campo va nel deserto dove incontra l'asceta Utanka.

Siamo dunque già nel punto centrale del nuovo spettacolo, ma anche ad uno dei cardini dell'intero poema epico: la trasfigurazione di Krishna. Sollecitato dall'impaziente asceta, l'avatàra si manifesta con le sue simboliche quattro braccia che atterriscono il suo interlocutore, si capisce allora in che cosa consista la sua potenza: "Tutte le creature sono in me, ed io sono in tutte le creature... trasformandomi costantemente io nasco in innumerevoli uteri". E proprio questa capacità di trasformarsi e di capire le trasformazioni altrui è quella che manca ad Utanka, che davanti alla manifestazione di Krishna nelle sembianze di un cacciatore non lo riconosce: fossilizzato nel suo ruolo di asceta rifiuta di berne l'urina privandosi della possibilità di divenire immortale.


Su un concetto assai simile si basa la ricerca teatrale di Peter Brook e dei suoi attori. La capacità di trasformarsi è infatti cercata non solo nel necessario passaggio di ruolo, ma in un più radicale cambiamento che coinvolge l'intero mezzo espressivo. Oltre agli esercizi a scopo pedagogico e compositivo - "gli attori a questo punto cambiavano ruolo ogni sera, affinché ognuno potesse arricchire ogni personaggio di una nuova comprensione e contribuire così allo sviluppo reale dell'opera" - Brook cerca un cambiamento di linguaggio e di gestualità che costringa i suoi attori a reinventarsi in funzione di un pubblico sempre nuovo. Con i viaggi che portavano l'intera troupe a recitare per mesi nei villaggi dell'Africa o a bordo delle jeep in corsa negli Stati Uniti, si cercava un mezzo espressivo che fosse realmente universale, che potesse contenere in sé tutte le culture e così superarle. "Ogni cultura esprime una diversa pagina dell'atlante interiore, ma la verità umana completa è globale, e il teatro è il luogo in cui il puzzle si può ricomporre".


Incarnarsi nei personaggi può imporre una totale condivisione delle loro caratteristiche, ma può anche permettere al narratore creatore di prenderne le distanze e di giudicarli. Se Benichou se ne distanzia spesso, Krishna spiega di esserne totalmente coinvolto, esprimendone così i relativi difetti. Ai tormentosi interrogativi su come abbia potuto permettere il massacro risponde: "Quando appartengo alla schiera degli dèi, agisco in tutte le cose come un Dio; nato ora tra gli uomini, io non posso che agire come un uomo". Si potrebbe forse supporre che la grandezza del narratore consista proprio in questo trascendere i suoi personaggi che gli impedisce di subirne le implicite limitazioni.


Ma mentre la seconda parte dello spettacolo è dominata dal distacco sapiente di un narratore che pare non toccato dagli eventi, tutto il primo episodio che viene presentato, relativo alle disavventure dell'asceta Utanka, è costruito su azioni forti con personaggi molto caratterizzati: "All'inizio di uno spettacolo il riso apre la disponibilità degli spettatori – afferma Carrière – mentre la solennità la chiude... d'altra parte è presente nella stessa tradizione del Mahabharata, dove vi sono diversi elementi di farsa". Siamo così stupefatti da una lunga sequenza costruita su una drammaturgia incalzante in cui vediamo Benichou estremizzare i suoi personaggi con gesti di ogni sorta che creano delle vignette esilaranti.


Aiutato da una musica appena percettibile e dai colori intensi dei cuscini, del tappeto e dei veli, l'attore riscopre poi una profonda sacralità che gli permette di tornare a narrare le tremende sciagure del popolo di Krishna. Accade però che il fondamentale equilibrio fra comico e sacro finisce per sbilanciarsi. Siamo così travolti dal personaggio di Utanka e dalle sue disavventure che quando gli eventi che lo riguardano si concludono e spariscono dalla scena tutti i personaggi che avevamo imparato a conoscere - rimanendo al loro posto soltanto la voce distaccata del narratore - non possiamo che rimpiangere quei momenti così vivi e considerare lo spettacolo ormai concluso.


La grande figura del narratore finisce così per non essere all'altezza dei suoi stessi personaggi: Krishna diviene più importante di Ganeshae, Utanka ci coinvolge assai più dell'avatàra; rispetto ai personaggi incarnati il mero racconto si fa meno interessante, forse perché intessuto dal solo Bénichou-Ganesha, senza quegli interlocutori così essenziali nel primo spettacolo, o forse per un problema di proporzioni: nell'ambito di una rappresentazione di un'ora e dieci, e non più di nove ore, una presenza troppo forte del narratore può avere un esito meno brillante rispetto al suo celeberrimo originale.


La mort de Krishna
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