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L'ultima ribalta del genius

di Maurizio Agamennone
  Ray Charles
Data di pubblicazione su web 03/01/2005  
Ray (Raymond Robinson) Charles - scomparso giovedì 10 giugno scorso, per le complicazioni di una grave patologia epatica - era denominato, antonomasticamente, The Genius. La sua genialità, probabilmente, non stava nella grande versatilità del suo approccio alla musica (oltre a cantare, suonava egregiamente il pianoforte, come è risaputo, ma anche il sassofono, e questo è meno noto, pur se ne restano alcune tracce discografiche), ma nella sua grandezza di interprete, vale a dire nella capacità di trattare i materiali musicali più disparati con una originalità e una capacità di invenzione che rendevano uniche e irripetibili le sue interpretazioni.


Ray Charles

 
Era nato ad Albany, in Georgia, nel 1932, in un ambiente crudelmente ostile ai neri, divenne irreversibilmente cieco all'età di sette anni e orfano a quattordici, ma già prima che fosse colpito da simili sventure aveva scelto la sua strada e la via di una emancipazione sicura. Così pure, durante il lungo e doloroso transito nel buio dell'eroina, la canzone, la musica, il talento e le sue personali doti di tenacia lo tennero al riparo da una catastrofe altrimenti irreversivibile. Anzi, da qualche parte si è supposto che l'itinerario biografico di Ray Charles (dalla miseria dolorosa e umiliante al successo internazionale) possa essere inteso come una delle rappresentazioni possibili del "sogno americano". 

Dotato di un orecchio e di una memoria musicale formidabili, come non è raro per i non vedenti, era capace di cantare in palcoscenico canzoni nuove, e sconosciute per lui, dopo averle ascoltate un paio di volte e rapidamente memorizzate; ne ha lasciato un'emozionata testimonianza Zucchero Fornaciari, uno dei suoi 'figli' o 'allievi' italiani, ricordando un concerto tenuto all'Arena di Verona nel 1989, nel quale il Genio era ospite d'onore: una prassi - il duo con altro vocalista - che Ray Charles ha sperimentato con grande generosità e simpatia - anche verso interpreti molto giovani - e trasformato in uno dei modi canonici del suo essere in scena (memorabili i duo con Betty Carter e Aretha Franklin).


Ray Charles


La produzione discografica di Ray Charles appare semplicemente sconfinata: si calcola che abbia inciso e messo in circolazione più di cento dischi, gran parte dei quali risultano ancora conservati in vinile, non essendo mai stati tarsferiti su CD; così, ha anche conseguito un numero elevatissimo di premi commerciali, per le vendite, e riconoscimenti di qualità. Uno dei fattori trainanti della sua genialità, come s'è detto, consisteva nell'estrema disinvoltura e facilità con cui, nella sua azione di interprete e vocalista, trattava, elaborava e integrava assetti stilistici e tratti formali distinti e anche lontani, senza rimanere intrappolato nelle barriere di genere e identificarsi con esse, come è capitato a decine di altri interpreti dignitosamente rappresentativi, per tutta la vita, di un solo stile o di un solo genere: jazz, blues, soul, rhythm and blues, gospel, spiritual sono i campi in cui si è espresso al meglio, e tutti risultano riconducibili a una comune matrice afro-americana, l'identità profonda del Genius. Ma si cimentò, anche, con testi di matrice bianca, di tradizione country e di origine rock ad esempio, proponendoli nella medesima prospettiva: trasformandoli, in confronto ai tratti stilistici originali, e forgiandoli con la sua voce e una straordinaria musicalità, restituendoci testi assolutamente nuovi, assai lontani dai modelli di partenza, e divenuti, nel tempo, veri e propri classici, nelle sue originalissime interpretazioni, ben oltre la fortuna e il successo che avevano marcato gli originali stessi (di cui, infatti, non si ricordano con facilità autori e primi interpreti).


Ray Charles
 

Tant'è vero che queste - le sue versioni di canzoni, le più diverse - sono considerate largamente un modello paradigmatico, cui continuano ad attingere numerosissimi vocalisti, in ogni regione del pianeta, sia nel processo formativo (l'apprendistato del giovane cantante), sia nella definizione dei repertori da proporre in palcoscenico: in tantissimi hanno imparato da lui, ma senza raggiungere la sua versatilità espressiva, in uno scenario emotivo e cinesico larghissimo (dalle lacrime di emozione intensa, all'esaltazione ritmica e motoria). Georgia on my mind - composta da "Hoagy" Carmichael, con ben altri intenti, nel 1930 – era la 'sua' canzone più nota: nessuno che abbia una anche pur modesta confidenza con il 'pop' (inteso in senso ampio), nessuno che abbia frequentato sale da ballo o discoteche, o che abbia ascoltato la radio, o intravisto talvolta la televisione, può ignorare questa canzone e il suo dondolante interprete. Così, chi abbia visto il film-culto The Blues Brothers di John Landis (1980, con John Belushi), difficilmente dimenticherà la figura sorridente ma attentissima dell'occhialuto nero venditore di strumenti musicali, pronto ad accogliere i giovani musicisti, ma lesto nel sanzionarne alcune incaute sottrazioni. 

Recentemente, Quincy Jones lo aveva invitato a partecipare al suo concerto di beneficienza (svoltosi a Roma, al Circo Massimo), ma la sua malattia glielo aveva impedito e lo stesso Jones aveva ricordato a milioni di tele-spettatori le sue difficili condizioni di salute, e sollecitato una preghiera per lui. In occasione della sua scomparsa i massimi interpreti del pop internazione si sono dichiarati largamente debitori nei confronti del Genius e hanno sinceramente riconosciuto come la musica sia profondamente cambiata, grazie alla sua opera; e questo, da punti di vista e ascolto molto lontani: dal nero 'vero' Stevie Wonder, fino al nero 'svanito' Michel Jackson. 


 
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