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Un padre, una città

di Giulia Tellini
  Alessandra Cortesi e Emanuele Montagna
Data di pubblicazione su web 10/09/2004  
Bologna, domenica 5 settembre: i posti del Teatro Dehon sono tutti esauriti. La comunista e cattolicissima città natale del Cardinale Lambertini celebra un altro grande personaggio della cristianità che, pur essendo nativo di Pellestrina di Chioggia, nel 1924 decise di scegliere il capoluogo emiliano come patria d'adozione. Padre Olinto Marella (Pellestrina, 1882 – Bologna, 1969) - di cui attualmente padre Elia Facchini sta postulando la causa di beatificazione - nel 1909 viene sospeso dal sacerdozio da Monsignor Antonio Bassani, per aver fondato una scuola cattolica mista e per aver frequentato un prete scomunicato; dopo essere stato riabilitato si trasferisce a Bologna, dove dal 1924 al 1948 insegna filosofia prima al liceo Galvani e poi al Minghetti. Dal 1936 comincia ad accogliere nella sua casa gli orfani e, dal 1939, i perseguitati ebrei; apre, a San Matteo della Decima, una "città dei ragazzi" denominata Villa Tombetta (oggi le comunità dell’opera Padre Marella sono una ventina). Nel 1945, prima del Concilio Vaticano, istituisce la celebrazione in italiano della Messa, per renderla comprensibile a tutti. Fino alla morte, ogni giorno, padre Marella – fervente assertore dell’importanza del "fare" e del "dono" - chiede l'elemosina in via degli Orefici; così recita all’inizio dello spettacolo, nei panni di narratore interno, il venditore ambulante e amico di Marella, Biavati (interpretato dall'ottimo attore bolognese Renzo Morselli a capo della compagnia teatrale "Il gruppo libero"): «A lui piacciono i soldi piccoli, le monetine, gli spicciolini, regalati magari da qualche povero cristo, come quelli che ha intorno tutti i dé. […] A lui piacciono i soldi che tintinnano non quelli che frusciano! Lui non prende mai assegni o soldi grossi dai ricchi, dai nobili mai! […] I soldi grossi più sono grossi più generano altri soldi e altri ancora; […] le monetine, invece, […] costano sangue, fatica; […] ritornano alla mano di carne, come bravi figli di famiglia, e diventano cose, cose necessarie per vivere».


Lo zelante Maurizio Clementi, autore di questo testo da lui definito «a più livelli», tiene a precisare di non aver voluto conferire all'azione teatrale la struttura di una commedia ma, più che altro, di una sacra rappresentazione medievale: «Non c'è una vera trama – afferma – ma un'azione continuata del personaggio principale in mezzo agli altri. La personalità di Marella deve venire fuori dalla coralità e dai dialoghi». Lo spettacolo è focalizzato su tre momenti in particolare: la scena della sospensione del sacerdozio, che occupa quasi metà del primo tempo, quella del brioso mercatino rionale e, infine, quella ambientata nella camerata dei ragazzi a Villa Tombetta. Si tratta, dunque, di veri e propri luoghi deputati all'interno dei quali organizzare, di volta in volta, un lavoro situazionale. «Il rischio, che è quello di risultare didascalici – sostiene Emanuele Montagna, fondatore della Scuola di Teatro Colli, direttore della messa in scena e, infine, vivace interprete del protagonista – viene risolto grazie agli interventi di Biavati. Marella ci perdonerà se lo abbiamo fatto diventare suo amico più di quanto non lo fosse stato in realtà». Fornito di baffi e barba rigorosamente folti e bianchi, Montagna, attore stanislavskijano-strasberghiano, si immedesima con devozione e disinvoltura nel ruolo di Marella: come interprete, inserisce nella partitura testuale piacevoli intermezzi improvvisati e, come regista, nei momenti più tesi della rappresentazione, fa comparire intensi primi piani degli attori sul grande schermo collocato sul fondo del palcoscenico e opportunamente illuminato. Docente di Comunicazione della Persuasione presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara, Montagna talora scende in platea e si intrattiene "a tu per tu" con gli spettatori bolognesi, non solo per assecondarne l'istintivo desiderio di sentire ancora vicina la presenza del magnanimo e quasi santo concittadino (chi scrive, tanto per delineare la tipologia del pubblico, era seduta fra due nostalgici ex-ragazzi di Marella e un gruppo di anziane suore domenicane) ma anche per rilevare, in qualche modo, la spiccata ironia e auto-ironia del protagonista.


Va riconosciuto a Clementi il merito di aver cercato di tenersi lontano dall’agiografia e di essersi soffermato su pochi e icastici episodi ora divertenti (il comizio dell’onorevole Ciccarelli ricalcato su quello celebre di Peppone), ora scanzonati (il rapporto cameratesco fra i ragazzi della casa famiglia), ora fin troppo melodrammatici (l'inverosimile colloquio con la contessa Olga): quasi come in una biblia pauperum naïf, padre Marella, spostandosi da un ambiente all'altro e confrontandosi con personaggi diversi, acquista spessore e poliedrica umanità grazie alla somma dei vari punti di vista da cui viene osservato. La volontà da parte di Clementi di ispirarsi, nell’ideare il testo, alla spettacolarità medievale si unisce alle moderne tecniche registiche e interpretative di Montagna, producendo un ibrido piuttosto interessante. Notevole è l'idea, alla fine, di far scorrere sullo schermo le immagini in bianco e nero del vero padre Marella mentre la commovente canzone popolare L'umarein dalla berba bianca di Fausto Carpani riempie il teatro. Lo spettacolo replica il 10 dicembre a Pellestrina.



Padre Marella
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