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L'eccezione della Norma: l'opera neoclassica di un romantico

di Elisabetta Torselli
  Norma
Data di pubblicazione su web 07/12/2004  
Il classicismo purissimo e sublime della Norma di Vincenzo Bellini è il suggello e la conclusione di una vicenda di teatro musicale europeo teatrale di ispirazione classica, cominciata molto tempo prima, proseguita con le grandi opere di Gluck e Mozart, poi con la Medea di Cherubini, e rilanciata ai primi dell'Ottocento dalla Vestale di Spontini, il cui esempio e la cui "tinta" avevano variamente condizionato una produzione vasta e oggi, si può dire, dimenticata, se non nelle occasionali riprese dei festival monografici e specialistici e nella memoria tenace dei melomani (l'Ecuba di Manfroce, l'Ermione di Rossini, un'altra Medea, quella di Pacini, il Poliuto del giovane Donizetti). Ma tra il lieto fine della mozartiana Clemenza di Tito (1791) e quello della Vestale (1807), perfette espressioni di un'estetica imperiale-illuminata di controllo delle passioni e di facoltà di perdono esercitata dai poteri legittimi, regali o divini che siano, si era incuneata con la rivoluzionaria Médée di Cherubini (1797) un'altra visione della classicità, come fragile e problematico confine con la barbarie e la primitività - espressioni autentiche dell'umano - dove l'eccesso tragico rendeva impossibile una soluzione pacificata della vicenda.

Quello che sarebbe divenuto il più smagliante successo belliniano nacque in un periodo in cui nell'opera si andava affermando, al contrario, un gusto romantico per cui l'ambientazione classica era qualcosa di superato. "Si byroneggia di qua, si hugheggia di là, si freme, si ringhia, si ulula, si singhiozza, si sospira", come ebbe a dire lo stesso Romani, il cui convinto classicismo di principio non impedì peraltro qualche felice deviazione, come la Lucrezia Borgia da Victor Hugo per Gaetano Donizetti (in cui anzi l'estetica hughiana e romantica del mostruoso come via più diretta al sublime è espressa con singolare radicalità); lo stesso Bellini aveva esordito sotto il segno teatrale romantico con Adelson e Salvini, Bianca e Fernando, Il Pirata (il suo primo grande successo scaligero) e La Straniera, con ambientazioni, situazioni e, per dir così, paesaggi storico-culturali tipicamente romantici (la selvaggia Irlanda, le congiure e gli avvicendamenti politici del Regno delle due Sicilie, la Bretagna medievale: congiure, tenzoni, tempeste, pirati, condanne a morte sancite da severi consessi cavallereschi, scene di pazzia); per non dire dei Capuleti e Montecchi che si rifà all'idolo del romanticismo teatrale, Shakespeare (ma in realtà la fonte diretta di questo libretto di Romani sono alcune non felicissime rielaborazioni shakespeariane ottocentesche).


V. La Scola e F. Cedolins
Vincenzo La Scola e Fiorenza Cedolins
 
Ecco invece Romani e Bellini volgersi a Norma, ou l'Infanticide, un testo teatrale di Alexandre Soumet (1788 - 1845), un autore che con questo e altri titoli esprime una visione senechiana e a tinte cruente della classicità, di grande fortuna nel teatro francese di allora, anche se Romani preferì rinunciare all'infanticidio e scolpire per Bellini un'eroina più materna e magnanima, che suo malgrado rifugge dalla terribile vendetta di Medea. Ciò che dovette colpire e ispirare così profondamente Bellini fu proprio la fecondità potenziale di una situazione in cui, come nella gluckiana Iphigénie en Tauride e nella cherubiniana Médée, si contrappongono "civiltà" (grecità/romanità) e ferocia "barbara", un fiume di lava fissato dalle sponde austere e nettamente delineate di un'espressione intensa ma controllatissima delle passioni umane; sponde peraltro tutt'altro che facili da tracciarsi, se è vero che Romani dovette riscrivere più volte versi e scene intere per l'incontentabile, giovane ma intransigente compositore siciliano. Il risultato è un lirismo belliniano che raggiunge la sua massima capacità di significazione "proprio dove il dramma è superato" (riflettuto, inabissato o messo in parentesi) secondo la felice intuizione di Ildebrando Pizzetti richiamata da Giovanni Carli Ballola nel saggio Di là della tragedia che figura nel programma di sala di questo spettacolo: la lunga melodia lunare di Casta Diva, la calma apparente di In mia mano alfin tu sei, il lungo, originalissimo e "antidrammatico" finale sono espressioni di come il classicismo "confondesse misteriosamente le sue acque con quelle del melos belliniano nel gorgo dell'estasi romantica", in quella che allora e poi sempre è sembrata una felicità nativa e spontanea di un romantico di Sicilia, nato sotto un cielo che più classico non si potrebbe, ma che è anche qualcosa d'altro, "un'effusività melodica rigorosamente assorta nell'interiorità delle sue contemplazioni" (Carli Ballola), che guarda al passato del teatro musicale nella compostezza, ampiezza, fermezza d'arcata e apparente, voluta semplicità delle sue formulazioni, ma anche a future drammaturgie di "azioni interiori" (non per niente fra i grandi estimatori della Norma troviamo, com'è noto, Richard Wagner).


F. Cedolins
Fiorenza Cedolins
 

Fondamentale in questa bell'edizione di Norma del Teatro delle Muse di Ancona è stata pertanto l'individuazione di una "tinta" classica peculiare grazie ad un celebrato spettacolo di Hugo de Ana, che il regista argentino aveva creato nel 2003 per il New National Theatre di Tokyo, e che è stato acquisito dalle Fondazioni Teatro delle Muse di Ancona e Arena di Verona e ripreso in quest'occasione da Michiko Taguchi: spettacolo di grande fasto modernamente e rigorosamente inteso e di indiscutibile eleganza, la cui chiave visuale sta nelle imponenti colonne, fregi, bassorilievi ed altri elementi architettonici e figurativi ispirati ad un neoclassicismo alla David, che, volta a volta muovendosi e suggerendo foresta e interni, definiscono la scena. Che i Galli, seppur dotati di scudi, lance e spade, vestano uniformi napoleoniche, mentre Pollione e Flavio indossano uniformi presumibilmente asburgiche, è forse storicamente discutibile sul piano della storia come del gusto e della moda Impero (in fondo l'equazione corretta sarebbe Impero romano = Impero napoleonico), ma è coerente alle scelte di fondo dello spettacolo. La regìa si compone nelle scene di massa in accorte geometrie di sfondo di armati e di popolo, ma il suo interesse sta piuttosto negli interni: nel minaccioso bagliore del braciere-focolare di Norma che poi diventa l'altare del sacrificio dove i protagonisti sono trafitti dalle lance anziché divorati dalle fiamme, nell'impostazione solenne ma vibrante, quasi alfieriana, del codice gestuale, nello scavo non banale dei personaggi principali.

Fin dalla celeberrima sinfonia iniziale, la concertazione corretta e trasparente (anche se forse un poco propensa alla dilatazione lirica dei tempi nella gestione del palcoscenico) di Fabrizio Maria Carminati ottiene risultati ragionevolmente pregevoli dall'orchestra, alle prese con una partitura le cui difficoltà nell'ottenere una plastica e belliniana lindura sono ben note. Il punto di forza del cast sono le due donne, Norma e Adalgisa, Fiorenza Cedolins e Carmela Remigio: si è infatti scelta la dialettica vocale originale per cui anche Adalgisa è soprano (alla prima scaligera le creatrici del ruolo furono Giuditta Pasta e un grande lirico-leggero, Giulietta Grisi), secondo la scelta già a suo tempo rilanciata da Riccardo Muti e con grandissimo vantaggio per la logica drammatica (Adalgisa è la più giovane e indifesa) e la reciproca calibratura vocale dei due personaggi. Fiorenza Cedolins viene da un repertorio diverso, di lirico pieno pucciniano e anche verdiano, quindi non dal famoso "soprano drammatico d'agilità", di cui, proprio con il ruolo della sacerdotessa gallica in particolare, Maria Callas ha fatto, com'è noto, rivivere i fasti ottocenteschi: e quindi oramai questo famoso "soprano drammatico d'agilità" è per tutti noi la Callas. Dunque il lirico pieno ma soave e di bellissimo colore che è la Cedolins ci ha consegnato una Casta Diva intimista e meno plastica, una cabaletta Ah! bello a me ritorna dalle agilità forse meno definite, più accarezzate che scolpite, e un In mia mano alfin tu sei! meno vibrante e scultoreo; tutto questo, beninteso, è un "meno" rispetto all'idea quanto mai eroica e appunto "callasiana", sia nel canto di agilità che nella forza d'accentazione, che siamo portati a farci del ruolo di Norma, perché, quanto ai requisiti reali del belcanto belliniano così come lo realizzavano le grandi voci per cui Bellini scriveva, come Giuditta Pasta, non ci sembra così facile pronunciarsi. Ma tutto ciò la Cedolins l'ha fatto con la sua voce di notevole bellezza, con le sue consuete, ammalianti smorzature, soprattutto con una partecipazione e sincerità d'espressione che ha conquistato e convinto il pubblico.

Altrettanto importante la prestazione di Carmela Remigio nel ruolo di Adalgisa; il giovane soprano si è affermato nelle eleganze del teatro mozartiano, ma la crescita dello spessore vocale e della forza drammatica erano, ad Ancona, evidentissime, almeno per chi non l'ascoltava da tempo, e da queste due strade diverse a Bellini della Cedolins e della Remigio è venuta fuori un'emozionante scena a due del secondo atto, quella conclusa dal celeberrimo duetto Mira, o Norma. Impegnato in una nobile ma ancora non del tutto definita ricerca di una vocalità tenorile diversa e più impegnativa rispetto ai ruoli in cui si è inizialmente affermato è apparso anche Vincenzo La Scola, Pollione. Successo molto vivo esteso anche agli altri ruoli, il giovane Andrea Papi, Oroveso, Giancarlo Pavan, Flavio, Katarina Nikolic, ottima Clotilde.


Norma
tragedia lirica in due atti


cast cast & credits
 
trama trama


C. Remigio e V. La Scola
Carmela Remigio e
Vincenzo La Scola



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